Partiti e politici
Il partito mancato
Una sorta di profezia che si auto-avvera, ma al contrario: volevamo intitolare il nostro libro (mio e di Luciano Fasano) sul Pd “Il partito mancato”, e non ce la siamo sentita. Pareva potesse rappresentare una specie di uccello del malaugurio per questa nuova giovane formazione politica, in attesa che aprisse le ali e spiccasse il volo, dopo alcuni anni travagliati, il cambio di ben tre segretari ufficiali e un progetto di complicata realizzazione.
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Ma è passato soltanto poco più di un anno dall’uscita de “L’ultimo partito” ed il Pd pare essere avviato proprio a quel punto, pare voler incarnare alla perfezione l’idea di un partito che non decolla, che non trova una sua strada, un partito che ancora non c’è e che, forse, non ci sarà mai.
Troppi i segnali che ormai si stanno accumulando, senza soluzione di continuità. Candidati alle primarie che compaiono e rapidamente scompaiono, ex-segretari che se ne vanno (Bersani) o che incombono senza che se ne capisca esattamente il ruolo né le volontà future (Renzi), sospese tra addii o ritorni, litigiosità interna costantemente ai massimi livelli, incertezza sulle possibili alleanze future, capacità di comunicare al paese quasi azzerata, obiettivi programmatici dei quali ormai si è persa traccia.
E, infine, due elementi che ne compromettono in maniera decisiva la presa sull’elettorato, quanto meno quello potenziale. Il primo non incolpabile di fatto al Pd stesso, il secondo al contrario decisamente sì. Il primo, dunque: l’assenza di un leader realmente capace di parlare agli elettori, di comunicare scelte o strade da percorrere per riavvicinare chi se n’è andato sbattendo la porta o silenziosamente optando per altre scelte, secondo loro, più chiare e definite. Capacità che aveva forse Veltroni e che sicuramente aveva Matteo Renzi, il quale non le ha sfruttate se non per un breve periodo del suo cammino, come segretario e primo ministro, ma di cui oggi i nuovi candidati paiono essere privi.
Il secondo elemento, invece, imputabile certo al partito. Vale a dire l’incapacità di rendersi conto che, in mancanza di un vero nuovo trascinatore, o forse grazie proprio a quella mancanza, il Pd dovrebbe orientarsi verso una gestione più collegiale, più armonica e pacata, in grado di diventare un punto di riferimento di tanti cittadini delusi dall’attuale governo e che intraprendono autonomamente le strade e le piazze della contestazione e della protesta, da Torino a Milano, da Roma a Riace.
Mostrare un nuovo volto, parole nuove, oggi, potrebbe essere l’unica ancora di salvezza per far riemergere un elettorato in via di estinzione, che stenta a tornare sui suoi passi nonostante alcune prove non brillanti dell’accoppiata Lega-5 stelle. E, infine, identificare un percorso, una linea, una visione del futuro da trasmettere almeno ai giovani, e a chi la politica la vede ormai come mera scelta di potere, ben al di sotto della sua funzione di auspicabile guida dei processi sociali, economici e culturali.
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Processi che quasi nessuno riesce a governare, limitandosi a cercare di chiuderli fuori dalla porta, erigendo muri e barriere che verranno facilmente abbattute dalla storia. Il Partito Democratico questo dovrebbe fare: ridare una speranza. Altrimenti, rimarrebbe realmente un partito mancato.
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