Partiti e politici
Il PD è morto?
La discussione politica nel centrosinistra sembra a tratti una discussione tra membri di club e tifoserie, invece che tra iscritti, militanti ed elettori di partiti politici. O semplici appassionati di politica.
La botta è stata grossa, lo sappiamo, e quindi è difficile riprendersi e riflettere con la “giusta distanza”. Ma è necessario, tanto più in un momento simile.
Perché è andata così? “Che fare” adesso?
Provo a fare qualche considerazione, molto parziale e molto provvisoria (sono prontissimo a cambiare idea, a fronte di argomenti convincenti), partendo da una considerazione storica.
Il PD è nato (già troppo tardi) in un contesto socio-economico totalmente diverso da quello attuale (prima del pieno dispiegarsi degli effetti della globalizzazione, per esempio), caratterizzato da una visione e da un progetto politico di “Terza via” (quella di Blair e Clinton, per intenderci), coerente con una società di ceto medio emergente, moderno ed europeista, votato alla crescita, politicamente moderato e orientato a combattere per la conquista del “centro” all’interno di un modello di competizione bipolare. Se, come molti analisti ci dicono, quella realtà non corrisponde più a quella di oggi (per queste tre cause, in estrema sintesi: la crisi economica scoppiata nel 2008, appena un anno dopo la fondazione del PD, la globalizzazione e il conseguente impoverimento della classe media occidentale), perché dovrebbe sopravvivere la principale forza politica che la interpretava?
Lo dice uno che a quel progetto credeva fino in fondo. E che ha ricominciato a fare un po’ di politica quando quel progetto si è ulteriormente inverato con l’avvento di Matteo Renzi, che ha dato effettività a qualcuna delle caratteristiche principali del “progetto PD”: la contendibilità e il definitivo superamento delle famiglie politiche che avevano dato vita al PD ma che ancora proiettavano su di esso una lunga ed ingombrante ombra.
Il PD, “quel” PD, è morto. Magari non a Milano (dove forse potrebbe prendere vita un progetto di PD milanese e lombardo con una sua forte e caratterizzata autonomia, di cui in un altro momento mi piacerebbe avere l’occasione di discutere), ma nel resto dell’Italia sembra proprio di sì. Dobbiamo dircelo, dobbiamo guardare bene in faccia la realtà. Per ricominciare. Perché se è morto quel PD, non sono morte le istanze e il “bisogno di democrazia” a cui solo un partito progressista può provare a rispondere.
Dice bene Giuseppe Imbrogno (http://www.glistatigenerali.com/partiti-politici/o-si-fa-unaltra-europa-o-si-muore/), quando individua nel depotenziamento degli “aventi diritto” uno dei processi principali alla radice del risultato elettorale attuale ed è condivisibile a grandi linee la sua diagnosi: “Il PD ha perso perché ha dimenticato che un diritto senza il reale potere di essere esercitato non fa che trasformarsi nell’ennesima occasione di disuguaglianza (il tema dell’ingiustizia generazionale è oggi emblematico su questo punto)”. Non si tratta solo di condizioni economiche e di reddito, non si tratta solo di protesta e periferie, è qualcosa di più. E’ una condizione esistenziale che ci riguarda tutti in prima persona (perché tutti siamo “a rischio” nella società globalizzata), ma ovviamente di più coloro che hanno meno strumenti per vivere la condizione di incertezza come una fonte di opportunità più che di pericoli.
Ma se questo è vero, allora si può dire che rimane davanti a tutti noi e davanti a chi vorrà farsene carico una montagna di problemi affrontabile solo, come sanno bene gli scalatori delle pareti più impervie, provando a tracciare nuove vie. Si apre, io credo, uno spazio di ricerca di forme e di politiche che possano davvero contribuire a restituire alle persone più potere sulla propria vita, a partire proprio dalle stesse persone, da ciò che le persone già fanno, sanno fare, praticano nella loro vita quotidiana e costruiscono nel loro mondo di relazioni e nel loro contesto di vita. L’esperienza delle persone conta, e deve contare di più nella costruzione di un nuovo progetto politico, perché le persone possiedono conoscenze e competenze che vanno ascoltate, scoperte, portate alla luce, valorizzate, messe in comune, inserite con sagacia e prudenza (perché le persone non si sentano ulteriormente defraudate) in un progetto politico.
Senza porsi immediatamente il problema del governo (certo, qualcuno dovrà porselo e avrà la responsabilità di prendere una decisione, ma qualsiasi essa sia – non mi sembra in questo momento la cosa più importante – è fondamentale che non chiuda troppo in fretta un processo di riflessione appena avviato), ma senza neanche buttare a mare, anzi sfruttando al meglio, tutto ciò che abbiamo imparato in questi anni standoci, al governo (nel bene – penso alle tante competenze cresciute – ma anche e forse soprattutto nel male: per esempio, che non si fanno riforme, per quanto giuste, senza il coinvolgimento e la condivisione con le persone e i soggetti per le quali queste riforme sono pensate) e riprendendo a pensare, studiare, discutere, provare a fare ipotesi e subito dopo ad abbandonarle, senza l’urgenza di arrivare in fretta ad avere una risposta.
In questo percorso di ricerca in mare aperto, quale quello che si prospetta, è più importante, come si dice spesso senza crederci ma in questo caso è proprio vero, il percorso della meta. Anche perché la meta non la conosciamo proprio, non abbiamo la più pallida idea di dove stia e di come sia fatta. Ma in fondo, se è vero, come sostiene Claudio Velardi (http://www.ottimistierazionali.it/lopinione-quantica-ha-votato/), che le opinioni politiche si formano nell’interazione quantistica di quelle interessanti particelle che siamo noi, l’importante è che troviamo ogni tanto dei punti di incontro/scontro che ci consentano di “scoprire” la nostra posizione (politica) e, pian piano, di ricostruire un percorso più evidente.
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