Media

Il Parlamento parla di informazione, ma vuole il guinzaglio ai giornalisti

4 Marzo 2016

Aiutare i giornali per superare la crisi. Impegnarsi contro i cronisti minacciati. E fornire un quadro normativo migliore in cui operare. Tutte nobili proposte al vaglio del Parlamento, che si accalora a promette più libertà di stampa. Ma poi disattende i nobili obiettivi. Giusto per iniziare basterebbe menzionare la riforma sulle pene per il reato di diffamazione, che deve ancora essere approvata. Nonostante un confronto avviato da tempo.

Negli ultimi giorni alla Camera è stato approvato in prima lettura (ora passerà all’esame del Senato), il provvedimento che risistema il mercato editoriale, compreso il finanziamento pubblico. Al netto della posizione sui soldi statali dati ai giornali, c’è già un punto critico: l’erogazione dei fondi viene decisa, ogni anno, dal presidente del Consiglio. Inutile aggiungere altro. E c’è un ulteriore elemento di inquietudine. Nel corso del confronto in Aula è stato respinto un emendamento che quasi sembrerebbe superfluo: l’obbligo per gli editori di dimostrare che retribuiscono i giornalisti, versando regolarmente i contributi. Appare logico che per accedere ai fondi pubblici bisogna essere ligi ai doveri imprenditoriale verso i dipendenti (anche per garantire una certa trasparenza nei conti). E invece no: il Partito democratico ha dato l’ordine di bocciare la norma, mandando su tutte le furie anche il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino. Che ha punto il dito contro i dem: “Vuole i giornalisti schiavi”.

Ma a Montecitorio, mentre Espresso e La Stampa decidevano di unirsi in un’unica famiglia, è circolato un altro tema: le garanzie da dare ai giornalisti minacciati. Un dibattito appassionante fino a che resta sul piano teorico, facendo finta di non conoscere le condizioni (spesso di profonda precarietà) reali di molti operatori dei media. L’approvazione della Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia è sicuramente un fatto importante. Ci mancherebbe. Ma sarebbe altrettanto importante impegnarsi per favorire un cambiamento reale, che non resti sul piano delle buone intenzioni, giusto per ottenere la pacca sulla spalla in una mattinata di fine inverno. Perché, al di là di ogni ragionevole buonismo, il problema è che all’atto pratico si fa poco o niente per dare garanzie ai giornalisti. Anzi, molte volte i legislatori, leggi parlamentari, usano la “minaccia della querela” come una clava.

Un’ulteriore testimonianza sull’ambivalenza della politica rispetto al sistema di informazione è l’oblio calato sulla legge per la diffamazione a mezzo stampa. Dopo i passaggi alla Camera (l’ultimo risalente al giugno 2015), manca la lettura decisiva al Senato: il via libera di Palazzo Madama, senza ulteriori modifiche rispetto a quelle apportate durante il lungo iter, renderebbe esecutiva la norma che non è la migliore possibile. Ma almeno cancellerebbe il carcere come possibile pena.

Ma del resto, a essere realisti, non c’era un granché da sperare. La maggioranza politica è la stessa che fa riferimento a chi vorrebbe licenziare i giornalisti sulla base di servizi o parole sgradite al governo.

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