Partiti e politici
Il necessario parricidio di Renzi e le due strade per il PD
Per ottundermi i sensi nella sala d’aspetto del dentista ho guardato il video dell’intervento di Matteo Renzi all’Assemblea nazionale del PD. Mi è sembrato uno di quei calciatori che si vedono alle partite delle vecchie glorie, tocco di piede spettacolare ma pancia prominente a ricordare che il tempo passa inesorabile, anche se il suo tempo è stato addirittura più veloce della carriera di Adriano, per dire di un formidabile dissipatore del proprio talento.
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Matteo Renzi è ancora un assoluto fuoriclasse per velocità di pensiero, contemporaneità, adesione spontanea e di animale naturalezza a tutti gli stilemi della comunicazione politica contemporanea, compresa l’inarrivabile citazione di Temptation Island. Eppure questo ragazzo più giovane di me e capace, lo ha ricordato, di fare del PD il partito più potente della storia repubblicana, sembrava un Keith Richards invecchiato male, un reperto storico della politica che tenta di rimanere aggrappato al potere e per questo risulta altrettanto patetico del novantenne De Mita Sindaco di Nusco.
Tutto questo “live fast and die young” sorprende e disorienta ma, riflettevo mentre la combinazione di anestesia e Orfini mi apriva le porte della percezione sulla poltrona del cavadenti, al tempo stesso racconta alla perfezione di una mutazione climatica profonda della politica e del comportamento dell’opinione pubblica che non può essere ignorata.
Come e molto più di Berlusconi, Matteo Renzi ha inaugurato e incarna la fase tropicale e monsonica della politica italiana. Leader fisici, giovani e velocissimi, che scalano il sistema politico con la stessa virulenza delle tempeste tropicali che stiamo conoscendo con i cambiamenti climatici. La politica come tessitura paziente di orizzonti e cursus honorum personale è gozzanianamente confinata fra i cimeli che ispirano tenerezza ma non funzionano più, ombrellino per le pioggerelle di aprile.
Si sarebbe potuto parlare di Renzi come di un would be dittatorello messo fuori gioco dal proprio delirio di onnipotenza se nel frattempo i monsoni non si fossero diffusi per tutto l’Occidente, finanche a suo modo nella civilissima Francia, e soprattutto se alla defenestrazione con pernacchie di un Matteo non fosse seguita la canonizzazione di un altro Matteo. Canonizzazione contraria ma uguale nella velocità dell’ascesa, nella trasformazione del leader politico in personaggio, nella commistione fra politica a e social network, e si spera nella rapida conclusione.
Da convinto elettore di Renzi (e della necessità del suo ritiro) ritengo ovviamente che un Matteo abbia governato bene e l’altro Matteo sia un pericolo pubblico, ma qui non stiamo parlando della qualità della musica ma delle regole (cannibali) dello star system politico, che sono appunto “live fast and die young”, ossia rottama, dichiara, sorridi, nuota, twitta, vinci, perdi, resisti, muori. Tutto in avanti veloce almeno 4x.
Qui sta il paradosso distruttivo del PD: non tanto contenere più linee politiche divergenti ma tenere insieme Renzi e Cuperlo (o Renzi e tutti gli altri esclusi i renziani, che senza Renzi semplicemente non esistono), modelli completamente opposti e inconciliabili di politica e antropologia, analogico e digitale.
Si discute di sinistra, di alleanze, di percorso congressuale e candidati alla Segreteria senza avvedersi che nel frattempo un uragano ha scoperchiato il tetto e quell’uragano è stato l’ascesa e declino della rockstar Renzi, che oggi ha ancora una mano sopraffina ma ha la pancia di birra e non regge più un concerto, gli impresari e i musicisti lo odiano e lui rompe le palle a tutti con i suoi ricordi (ha citato anche “Luci a San Siro”, tenero giovane vecchissimo). Peggio ancora, quel che resta del gruppo dirigente del principale partito italiano degli ultimi 20 anni pensa di sostituire la rockstar con degli anonimi turnisti promossi frontman.
Pensare che dopo i due Matteo si tornerà al tepore delle mezze stagioni è un’illusione che in politica è pericoloso coltivare, perché i vuoti si riempiono in fretta e con il materiale che c’è.
Le leadership riflessive alla Gentiloni possono rappresentare un buon intermezzo fra le guerre lampo, raffreddare la temperatura della società e soprattutto fare le cose dopo tanti tweet, ma non reggono e non reggeranno più alla prova del consenso, semplicemente perché non riescono a superare il rumore di fondo.
Anche il modello del governo dei mediocri inaugurato da 5 Stelle arranca
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di fronte alla comodità e alla prepotenza del leader monsonico, alla sua totale duttilità ideologica e comunicativa, alla sua giovanilistica ubiquità. In luogo della fatica democratica di comprendere i temi, farsi un’opinione e accettare l’altrui, l’elettorato occidentale sembra tornato a preferire l’adesione fideistica al leader, con la variante digitale della velocità, per cui si passa da giovane promessa a solito stronzo ancora prima di finire il liceo e non si campa mai a sufficienza per diventare venerato maestro.
Convinto come sono del carattere strutturale di questa mutazione mi spingo a dire che anche la Lega, passata la festa della crescita nazionale e salviniana, potrebbe trovarsi a fare i conti con questo stesso smarrimento quando Salvini sarà rottamato dal peso delle promesse mancate e soprattutto dalla noia degli elettori che dopo gli immigrati e la Kasta vorranno un nuovo nemico.
Tornare indietro dal cambiamento climatico oggi non è più possibile e, in politica come in ogni campo della società fondato sul consenso, attestarsi sulla difesa del passato (o essere troppo avanti) e un errore marchiano che si paga con cocenti sconfitte. Per questa ragione non è possibile mettere crocianamente Renzi tra parentesi, pensando che passata la sbornia si possa tornare tranquillamente a un prima fatto di Sinistra (lasciate in pace Bobbio e ditemi dov’è la Sinistra se la CGIL plaude al Decreto Dignità), caminetti di gestione del Partito e Ulivo.
Né è altrettanto possibile, ed esteticamente accettabile, pensare che l’egomaniaco e testosteronico Renzi si faccia placidamente da parte, gatto castrato che dormicchia in poltrona. L’unica fine letterariamente accettabile per quello che rimane il leader più sveglio, abile e intelligente del campo democratico, azzoppato dalla colpa imperdonabile di essere diventato sfigato, è (politicamente, s’intende) l’omicidio alla Borgia, magari per mano di qualcuno dei suoi cortigiani, cavalieri troppo improbabili per sedere alla Tavola Rotonda.
Oltre Renzi, per la cui uscita di scena mancano i dettagli, il PD deve evitare di trasformare la difficoltà momentanea nel peccato più grave per un partito politico, l’irrilevanza. Non credo che tutto sia perduto e la Storia ci ha abituato a grandi e repentini rivolgimenti. Lo stesso raduno di Pontida, quest’anno celebrato anche dai venditori di n’duja, non si tenne nel 2006 perché la Lega aveva perso il referendum sul federalismo e nel 2012 per solidarietà al compagno Belsito ingiustamente carcerato, mentre oggi celebra gli ungheresi al potere.
La stessa storia insegna però che stare fermi non è quasi mai una buona idea e dunque tocca che i democratici elaborino il lutto, regalino Emiliano a chi se lo viene a prendere e, se non vogliono diventare un museo della politica del ‘900, scelgano tra due strade.
La prima è aprire il casting per un altro Renzi, un altro condottiero e giocatore d’azzardo che si lanci in un’altra campagna di conquista. È difficile ma non impossibile, come non lo è che esca lo stesso numero due volte consecutive alla roulette.
La seconda è inventarsi un modello nuovo di leadership, che potremmo chiamare renzismo temperato. Il renzismo temperato riconosce che ormai la politica vuole bulimicamente facce e corpi e non pensa di sostituirli con l’assemblearismo. D’altra parte, con la presunzione di rappresentare nel campo democratico individui più sensibili e senzienti, invece dell’uomo solo al comando si lavora per dare vita ad una generazione di leader moderni, cazzuti e spendibili ma con un asset in più rispetto all’originale, ossia il radicamento territoriale.
Se Renzi ha colpevolmente disboscato al partito e a Governo ogni articolazione territoriale perché gli faceva ombra (e il suprematismo toscano altro non era che provinciale bisogno di clan), il renzismo temperato deve sposare il territorio (e il lavoro) come dimensione di senso. Una Camelot senza cavalli promossi Governatori di Regione ma fatta di sindaci e assessori e leader di comunità, che siano credibili e portino a casa il risultato, magari non col carisma di Mick Jagger ma nemmeno con quello di Frate Cionfoli.
Io un partito così lo voterei.
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