Partiti e politici
Il mio nome è Giorgia e risolvo problemi
Chi non si ricorda di Harvey Keitel in Pulpe Fiction quando si presenta a casa di Quentin Tarantino (che fa un cameo nel film) per aiutare John Travolta e il suo socio a sbarazzarsi di “un cadavere nella macchina e della testa nel garage”?
Keitel, dopo aver suonato il campanello, pronuncia una delle frasi più famose rimaste nella storia del cinema: “Sono Winston Wolf e risolvo problemi”. Non sappiamo se Giorgia Meloni si ispiri a Mr Wolf quando in una recente intervista al Festival dell’Economia di Trento si è proposta nello stesso modo: “Attualmente la mia vita si svolge così: mi alzo la mattina, cerco di risolvere problemi, vado a dormire”.
Bisogna riconoscere una tendenza alla semplificazione nel Melonian-pensiero: la separazione dei poteri già indicata da Montesquieu nel settecento, secondo cui “non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo”, deve essere un concetto forse sconosciuto alla premier, o sicuramente non compreso, perchè nella sua riforma costituzionale per introdurre il premierato viene annullato il ruolo del Parlamento: i partiti o i candidati collegati alla lista del premier prendono il 55% dei seggi, indipendentemente dal risultato ottenuto alle elezioni, almeno secondo quanto è stato scritto nel testo di riforma costituzionale presentato da Fratelli d’Italia.
Non è difficile immaginare che una volta eliminato il ruolo del Parlamento – che approverebbe per battuta di mano le leggi proposte dal premier, visto che votare a quel punto sarebbe pleonastico – verrebbe meno anche il potere assegnato all’apparato giudiziario, azzerato a colpi di leggi votate spellandosi le mani dal nuovo parlamento bulgaro.
Lei, Giorgia, sarebbe finalmente libera da lacci e lacciuoli e potrebbe finalmente risolvere tutti i nostri problemi, lasciando sicuramente da parte l’evasione fiscale (il redditometro è stato subito bloccato appena si è sentito il rumoreggiare degli evasori-elettori di Fratelli d’Italia e degli altri partiti al governo che non gradiscono gli accertamenti fiscali), nonché tutte le altre questioni relative ai privilegi corporativi di alcune categorie (dai balneari ai tassisti), per dedicarsi seriamente a questioni molto sentite dall’elettorato di Giorgia, come per esempio la cosiddetta “Teoria del gender”, al cui proposito tutti ci dovremmo chiedere: “Ma che vor dì?”.
Peccato che l’elettorato della signora Meloni di fronte alla parola “gender” rizzi immediatamente le piume e rabbrividisca di disgusto: ormai alla parola “gender” (che significa semplicemente “genere”) sono associate tutte le forme di “deviazione” dalla tradizionale distinzione tra maschio e femmina (caratterizzata dall’esistenza di organi riproduttivi di tipo maschile o femminile), e possono comprendere (sempre nella vulgata meloniana) dall’omosessualità fino a ogni tipo di perversione legate alla sfera sessuale. Un pedofilo potrebbe tranquillamente appartenere al mondo “gender”, così come una coppia di omosessuali sposati con tanto di PACS (Patti Civili di Solidarietà), legge riconosciuta dallo stato italiano.
Sembra infatti che gli unici temi sui quali la signora Meloni si senta assolutamente “confidente” siano quelli della famiglia “tradizionale”, con un marito e una moglie (italiani) che si dedicano alla produzione seriale di figli da donare alle patrie forze lavoro, che ultimamente stanno perdendo colpi a favore di lavoratori appartenenti ad altre “etnie” diverse da quella italiana, da difendere assolutamente da fenomeni di meticciato, che potrebbero diluire la purezza delle nostre tradizioni. Quali tradizioni verrebbe da chiedersi? Anche questo concetto – la tradizione – è un po’ generico, come quello del “gender”, perchè va dalla mozzarella ai canti gregoriani, e non si capisce perchè un senegalese non potrebbe mangiare la mozzarella o imparare a cantare in latino. Non si vedono particolari controindicazioni, insomma, a lasciar consumare una Caprese a un cittadino (magari diventato italiano), nato a Dakar o a fargli studiare il latino.
Impossibile quindi non riconoscere nelle ultime uscite meloniane le classiche pulsioni populistiche, para-razziste, omofobiche e personalistiche, degne appunto dei leader che ormai hanno preso una deriva populistica. Per maggiore chiarezza, ripeto ancora qual è il significato di populismo: si definisce tale un movimento politico o un leader che abbia deciso di sbarazzarsi di tutti gli orpelli democratici (tra cui la separazione dei poteri prescritta da Montesquieu) per parlare direttamente al “popolo”, entità un po’ generica, ma definita tale in alternativa a chi gode di privilegi immeritati, in questo caso i “salotti radical-chic romani” (secondo la signora Meloni ). Le alternative al popolo possono avere diverse gradazioni, nonostante si tratti in genere di variazioni sul tema delle “élite”, dipinte come decadenti (contagiate dal “gender”, quindi con costumi sessuali discutibili), ma soprattutto “colte”, ovvero composte da signori che hanno ereditato dai genitori la casa con una libreria e la vista sul Tevere, dove organizzano cene esclusive alle quali neanche la Presidente Meloni verrebbe invitata.
Ordunqne, nessuno vuole affermare che i salotti romani siano il faro che illumina le nostre notti oscure e ai quali tutti aspiriamo di poter un giorno assurgere all’onore di un invito, ma non dobbiamo dimenticare che esistono da sempre anche salotti romani nerissimi, cito quello storico della scomparsa Assunta Almirante, che intrugliano nella vita politica italiana esattamente come fanno i salotti dell’altro coté politico.
Concludo con un’ultima annotazione sulla deriva populista della premier: guardatevi lo spot elettorale della Meloni in cui gli attori recitano: “Io voto Giorgia perchè è una del popolo, è una di noi e si è fatta strada da sola, eccetera”. La litania, pronunciata solo da “gente del popolo”, dai camerieri ai contadini, continua con l’invito a votare Giorgia per i motivi più disparati, e solo alla fine del video appare il logo del suo partito, Fratelli d’Italia, accompagnato dal nome di Giorgia Meloni, scritto naturalmente con un font più grande, a cui segue un ultimo appello: “Vota Giorgia!”.
Ma agli italiani piace per davvero tutto questo sfoggio di ego vanitoso e onnipotente, oppure alla prova del nove – il voto al referendum sul premierato – la defenestreranno come fecero con Renzi? Sappiamo che gli italiani hanno nel fondo dell’animo uno spirito ribelle e che quelli più anziani si ricordano ancora bene degli anni passati sotto l’ultimo dei leader populisti italiani riuscito ad andare al potere, Benito Mussolini. Negli anni in cui governò l’Italia, diminuirono addirittura le calorie assunte giornalmente dalla classe operaia (Storia d’Italia nella Guerra fascista, 1940-43, Giorgio Bocca, Feltrinelli, 2020), a favore di quelle assunte dall’élite (che non divenne obesa, ma semplicemente ancora più ricca grazie al regime fascista).
La bugia suprema dei leader populisti è da sempre quella di essere dalla parte del popolo, mentre la signora Meloni ha dato finora segni chiarissimi di essere dalla parte di chi gode da decenni di una concessione balneare a prezzi ridicolmente bassi, dei tassisti che non vogliono un aumento delle licenze (causando enormi disservizi agli utenti del loro non-servizio), dei lavori autonomi rispetto a quelli dipendenti (questi ultimi sommersi da livelli altissimi di tassazione), nonché degli evasori, vista la fine fatta in pochi giorni del redditometro, subito cassato dalla Meloni, per non dare fastidio alle élite che sostengono la premier.
Non esistono leader populisti che non siano l’espressione politica di una parte delle élite, in genere di quelle più retrive e meno legate all’espansione dei settori più moderni e tecnologici dell’industria. Si potrebbe anche definire il populismo come uno stile di marketing elettorale che punta sulla chiamata diretta al popolo, per il quale si rivendica un rapporto privilegiato con il leader che lo rappresenta, senza il bisogno dell’intermediazione dei partiti, delle istituzioni parlamentari, o anche di altre figure intermedie (magari membri del partito). Ed è questa la direzione che sta prendendo Giorgia: – “Vota Giorgia!” – come se lei facesse solo incidentalmente parte di Fratelli d’Italia, partito-vettore del leader, destinato a scomparire (o quanto meno ad apparire sempre meno) quando finalmente Giorgia diventerà un leader plenipotenziario.
Impossibile non chiudere con le parole (su Giorgia) di un altro leader populista che però ha avuto una vita (politica) lunghissima, Silvio Berlusconi, che nei suoi famosi appunti fotografati in Parlamento l’aveva definita: “Supponente, prepotente, arrogante e offensiva” . Impossibile anche non notare come la lunga sopravvivenza del Cavaliere sia stata legata a uno stile completamente diverso: suadente, simpatico, manipolatore e (fintamente) umile.
Sarà interessante vedere qual è infine la ricetta migliore per sopravvivere alle insidie della politica italiana ma anche degli stessi italiani, pronti a voltare la testa di fronte ai leader arroganti, come nel caso della caduta di Renzi dopo il referendum (perso) che aveva avuto l’ardire di proclamare come un referendum su se stesso. Chi è causa del suo mal pianga nel cesso (fa anche rima). E chissà che anche la signora Meloni non si trovi presto a singhiozzare sulla tassa del cesso, nonostante sia già partito l’avviso: Giorgia continuerà a governare anche se gli italiani bocceranno il suo referendum, non sarà così cretina di dimettersi: “O la va, o la spacca!”.
La dignità e il buon gusto di ammettere di aver perso non sembrano far parte della cultura – cultura per modo di dire – della nostra presidentessa. Anche perchè lei a se stessa non pensa mai: “Io non sto al governo per me stessa, io faccio questa vita solamente se so che va bene per i cittadini italiani, lo faccio per loro”. Madre e padre, insomma, di ciascuno di noi, volenti o nolenti.
Che dire? I would prefer not to. Ma dubito che Giorgia legga i libri per le élite e immagino che ritenga una citazione di Melville radical-chic, da mangia-caviale. Shame on me.
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