Partiti e politici

Il Ministero dell’Istruzione boccia la sua riforma, ma Valditara va avanti

11 Dicembre 2023

Il 7 dicembre, il CSPI, Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, composto per la metà di rappresentanti sindacali e per l’altra metà di dipendenti del MIUR, ha bocciato inesorabilmente la (ancorché futura) Riforma Valditara degli istituti tecnici e professionali, per degli ottimi motivi, peraltro, tra cui il rischio del ritorno del lavoro minorile, perchè i PCTO, Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento, di fatto  formazione non remunerata nelle aziende, vengono anticipati, nella Riforma Valditara, a 15 anni: un po’ troppo presto anche per gli imprenditori, che dovrebbero farsi carico della sicurezza di “quasi” bambini, impegnati magari a manovrare macchinari che richiedono molta prudenza (e abilità).

Ma il Ministrissimo dell’Istruzione ma soprattutto del Merito procede invece come un treno ed ha emesso, lo stesso giorno, il decreto n. 240, contenente i decreti attuativi per consentire alle scuole interessate di partecipare alla sperimentazione di una legge che, badate bene, non è stata ancora approvata dal Parlamento, anche se la maggioranza ha ufficialmente “promesso” che verrà varata prima del 31 dicembre.

Siamo finiti in un racconto di Borges, potrei citare “Pierre Menard (autore del Don Quijote de la Mancha)”, in cui un irreale scrittore francese decide di riscrivere il “Don Chisciotte” producendo “delle pagine che coincidessero, parola per parola e linea per linea” con l’opera originale, ma assolutamente diverse dall’opera originale (sempre secondo Menard) perché derivanti dai suoi pensieri e non dalla mente di Cervantes.

Nel nostro caso, il borgesiamo Ministro dell’Istruzione emette un decreto legge che dichiara avviata la sperimentazione di una legge non ancora approvata (e che quindi non esiste), a cui segue l’altrettanto borgesiano avviso del Capo Dipartimento del Mistero dell’Istruzione, Carmela Palumbo, sempre il 7 dicembre, che decreta come data finale il 30 dicembre 2023  per potersi iscrivere (da parte degli istituti scolastici) al nuovo percorso formativo quadriennale (che, ripeto ancora non esiste, non essendo stata approvata la legge in Parlamento).

Ma anche l’iter parlamentare della Riforma Valditara ha caratteristiche surreali: presentata in Commissione Cultura il 1 dicembre dalla responsabile della scuola di Fratelli d’Italia, Ella Bucalo, ha ricevuto una ben timida accoglienza da parte della senatrice D’Elia del PD, che ha chiesto di avviare un ciclo di audizioni in Parlamento, richiesta prontamente arginata dalla maggioranza, che ha fissato nel 5 dicembre la sola giornata dedicata alle audizioni, avvisando l’opposizione che gli emendamenti avrebbero dovuto essere presentati entro il 6 dicembre (24 ore di tempo). Perché allora non proseguire sul filone borgesiano e non fissare un limite antecedente alla discussione, magari il 4 dicembre, per presentare gli emendamenti? Tanto il decreto legge del 7 dicembre era già pronto così come l’avviso alle scuole della Palumbo.

Insomma, si direbbe che sia il Parlamento stesso a non esistere più per Fratelli d’Italia e gli altri partiti al governo, che si scrivono le leggi da soli, compresi i decreti attuativi, e siccome godono della maggioranza dei voti, ritengono l’iter parlamentare assolutamente irrilevante, perché tanto “vincerebbero”, e non fa parte della loro visione politica l’idea anche solo di ascoltare le opinioni differenti (seppur espresse dalla minoranza) degli altri deputati.

Ricordo che il Parlamento è stato inventato proprio per questo: poter discutere, tra maggioranza e opposizione, dei disegni di legge presentati da maggioranza e opposizione e magari, chissà, trovare un accordo tra i diversi punti di vista, data la funzione del Parlamento di “bilanciare” al suo interno visioni diverse (espresse dai cittadini attraverso il voto), ma anche di “bilanciare” il potere esecutivo, che potrebbe veder modificata o bocciata una legge precedentemente presentata in una delle commissioni parlamentari dai deputati della maggioranza, e poi magari duramente contestata in aula.

Cito a questo punto una bellissima definizione di democrazia, data da Noah Harari a Lex Fridman nel podcast  dedicato a “Human Nature, Intelligence, Power, and Conspiracies” , in cui Harari afferma: “La democrazia è una conversazione”. Aggiungo: “pacifica”, anche se le conversazioni dovrebbero esserlo per definizione. Chi si rifiuta di “conversare” con l’opposizione perché ritiene che “chi vince prende tutto” – aggiungo, a mia volta, “a suon di schiaffi” (metaforici) alla suddetta opposizione –  non è degno di governare, perché armato di testarda supponenza, prepotenza, tracotanza. Ed è quindi pericoloso.

Non sembrerebbe quindi un caso – sempre seguendo il punto di vista di Harari – il fatto che questa maggioranza abbia presentato una riforma costituzionale  che prevede il premierato (con un premier pluripotente eletto direttamente dai cittadini) e il premio di maggioranza (55% dei seggi sia alla Camera che in Senato) attribuito alla lista e ai canditati “collegati” al premier (Renzi si sarebbe già “collegato”…) che vincerà le elezioni, indipendentemente dalla percentuale raggiunta dalla lista e dai singoli candidati collegati. Se questa proposta diventasse effettiva e Giorgia Meloni diventasse premier e la coalizione a lei collegata ricevesse il 30% dei voti, il premio di maggioranza arriverebbe a toccare il 25% degli eletti nelle due Camere!

Certo, esistono delle sentenze della Corte Costituzionale in materia di leggi elettorali, per esempio la Sentenza n. 1 del 2014 sulla legge elettorale n. 270 del 2005, secondo le quali non si può attribuire la maggioranza dei seggi a chi non raggiunge una soglia minima di voti, anche se, secondo la mia modesta opinione, i premi di maggioranza (in particolare quelli che permettono di arrivare a più della metà dei membri del Parlamento) sono per definizione un pericolo per la vita delle democrazie liberali, proprio perché attentano alla loro concezione di “conversazioni” tra partiti, deputati e governo, ma anche tra gli stessi cittadini, e non come bruta legge del più forte.

La mossa di Giorgia Meloni di inserire nella Costituzione il premio di maggioranza, slegato dalla soglia di voti raggiunti dalla sua coalizione, fa pensare a un tentativo di “aggirare” pareri avversi da parte della Corte Costituzionale, inserendo appunto l’annoso codicillo all’interno della Costituzione per poi sottoporlo a referendum, senza quorum, in questo caso. Referendum al quale probabilmente nessuno andrebbe a votare, e la Meloni potrebbe vincere la consultazione referendaria magari solo con il 16% dei votanti totali italiani (se votassero solo il 30% degli elettori).

Dopo di che, un Parlamento oggi già umiliato, come dimostra la vicenda Valditara, diventerebbe l’Assemblea Popolare Suprema della Corea del Nord, dove i 687 membri hanno solo due possibilità: votare “Sì” o “No” alle delibere presentate dal Partito del Lavoro, con esiti facili da immaginare (chi voterebbe “No” in Corea del Nord?).

Impossibile, arrivati a questo punto, non notare una certa assenza dell’opposizione, impegnata su altri temi (diritti civili, salario minimo, immigrazione), senza che nessuno dei partiti che la compongono sembri avere quanto meno la percezione dei pericoli in arrivo. Mi riferisco al giorno in cui i deputati seduti sugli scranni dell’opposizione potranno solo votare “No” (ma sta già succedendo adesso) alle leggi proposte dalla maggioranza. Anzi, forse non sarà più neanche necessario votare: basterà l’applauso festante del 55% dei parlamentari.

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