Partiti e politici

Il manifesto di Calenda non è di destra, anzi

29 Giugno 2018

Qualche giorno fa Carlo Calenda ha pubblicato su Il Foglio un suo manifesto politico intitolato “Un’altra Italia è possibile”che nelle intenzioni dovrebbe essere il canovaccio per quel “fronte repubblicano” che ambirebbe a contrapporsi ai partiti che hanno dato origine al governo pentaleghista. Come saranno organizzate queste forze di opposizione prima e di governo, si spera, poi è una discussione molto prematura secondo me. Quello che occorre fare è rimettersi a parlare di politica e politiche, anche senza porsi troppi problemi di nomi e strutture ma soprattutto senza ostracismi e avendo l’umiltà di ascoltare con attenzione tutti coloro che si dicono interessati a restituire alla sinistra (o centrosinistra) un’identità e uno spazio di azione.
Ecco, credo che molti a sinistra non l’abbiano fatto, e abbiano etichettato il manifesto di Calenda come un programma politico per una nuova destra liberale solo perché, oltre che ad essere pubblicato su Il Foglio, viene da un ex-ministro paciarotto e figlio delle élite romane e forse perché non contiene alcune formule roboanti come neoliberismo, dittatura dei mercati e finanziarizzazione dell’economia. Lemmi che a volte poi si rivelano vuoti di un significato utile per fare politica davvero.

Io, che non sono una calenda-girl e che iniziavo anche ad infastidirmi per l’ubiquità twittologa del ministro, l’ho invece letto con attenzione, cercando nel documento idee e messaggi di sinistra di cui tutti dicono di aver bisogno e li ho anche trovati.
Penso che il manifesto di Calenda sia un buon inizio, una definizione del campo e dei temi, molti dei quali possono essere poi declinati in maniera più radicale e innovativa. Forse non è il first-best, ma non ho letto di meglio prodotto da chi continua a dire che ci vuole “ben altro”.
Prendiamo l’introduzione, essa inizia elencando una serie di problemi che ci troviamo ad affrontare: classe media impoverita, distribuzione della ricchezza disuguale, analfabetismo funzionale, esclusione sociale. Non parla della crescita insufficiente o di valori del PIL e anzi riconosce che competizione e mercati aperti non sono riusciti a portare benessere diffuso. Contrappone poi la governance politica della UE, lenta e debole, alla governance finanziaria della stessa che descrive come rigida e incapace di favorire la convergenza “tra Nord e Sud” e di gestire gli shock. Subito affronta il problema del fallimento delle élite che hanno presentato la globalizzazione come un fenomeno sempre positivo, inevitabile e ingovernabile. Cita il loro (delle élite) deficit di rappresentanza. Parla di “correggere e governare le traiettorie” e conclude dicendo “Lo scenario …descritto richiederà un impegno diretto dello Stato in una dimensione mai sino ad ora sperimentata”.
Ecco, a me tutto sembra fuorché un discorso liberista ma un ragionamento dove anzi si afferma il primato necessario della politica sui mercati.

Arrivano poi le priorità.

Tenere in sicurezza l’Italia sotto il profilo dei conti pubblici per poter continuare ad emettere debito a costi sostenibili, sulla gestione dei flussi migratori fa uno scivolone che molti non gli perdoneranno sostenendo il “piano Minniti” ma subito dopo parla della necessità di creare canali di ingresso regolari e selettivi.
Proteggere gli sconfitti può essere una scelta di termini infelice, ma possiamo chiamarli deboli e la sostanza non cambia. Parla di rafforzare il Rei, istituire nuovi ammortizzatori sociali, di gestione delle crisi aziendali e di introduzione del salario minimo per chi non è coperto da contrattazione nazionale o aziendale.
Investire nelle trasformazioni, per allargare la base dei vincenti sembrerà anche un gergo McKinsey ma in sostanza significa investire in università, scuola e ricerca. Parla di proseguire Industria 4.0, implementare la Strategia Energetica Nazionale e velocizzare il raggiungimento dei target di Cop21. Si propone di ricostruire al Sud una base industriale. Magari non è abbastanza, ma si può partire da qui.
Promuovere l’interessa nazionale in UE e nel mondo è un paragrafo che ha fatto alzare il sopracciglio a molti europeisti. Si tratta, credo, di realismo davanti al fatto che non ci sono, per ora, le condizioni storiche “per superare l’idea di nazione”. Possiamo anche vederlo come un passo intermedio, un paese più solido e più coeso potrà sicuramente avere maggior peso nella costruzione di “una Unione sempre più forte, in particolare nella dimensione esterna (migrazioni, difesa, commercio)” rifiutando però l’inserimento del fiscal compact nei trattati europei e mantenendo una posizione intransigente sul dumping commerciale, che come sappiamo alla fine finisce sulle spalle dei lavoratori.
Con la priorità “conoscere” Calenda intende affrontare l’analfabetismo funzionale che tanto contribuisce ad accrescere le insicurezze e le paure dei cittadini davanti ad un mondo che cambia velocemente e per i quali occorrono strumenti che non tutti posseggono. E introduce un concetto che è troppe volte mancato nei programmi di sinistra degli ultimi anni: la paura ha diritto di cittadinanza e la politica deve rappresentarla, ascoltarla e gestirla. Per ribadire questa necessità spiega un concetto, a me molto caro, con una frase bellissima che distilla il senso di occuparsi di politica “La competenza non può sostituire la rappresentanza come l’inesperienza non può essere confusa con la purezza. Questo vuol dire prendersi cura del presente e gestire le transizioni piuttosto che idealizzare il futuro, esorcizzare le paure e affidarsi alla teoria economica e alla meccanica del mercato e dell’innovazione tecnologica, come processi naturali che rendono ogni azione di Governo inutile e ogni processo dirompente inevitabile.”.
Conclude ribadendo la necessità di “uno Stato forte ma non invasivo che garantisca in primo luogo ai cittadini gli strumenti per comprendere i processi di cambiamento e per trovare la propria strada”.

Queste sono le priorità secondo Calenda, sarà che ormai ci si accontenta ma io ho trovato molte delle parole chiave che credo servano per ricominciare a discutere di un programma di sinistraEd è un inizio, e permette variazioni ed inserimenti di scelte più marcatamente di sinistra. Non è incompatibile con un movimento grass roots (se vuoi aiutare i deboli è fondamentale ascoltarli e coinvolgerli), non è incompatibile con l’incentivare nuove forme di governance nelle imprese (che coinvolgano un numero maggiore di stake-holders), non è incompatibile con il premiare investimenti a maggior impatto sociale.
Io penso che siamo andati troppo avanti nella storia per far finta che gli incentivi individuali non siano un motore fondamentale (anche quando si fanno collettivi) ma sappiamo anche che si possono indirizzare verso obiettivi con maggiori ricadute positive per la società. Penso anche che siamo andati troppo oltre in questi anni per non sapere che tutto questo debba avvenire cercando di portarsi dietro tutti. Innanzitutto fornendo davvero a tutti gli strumenti per farcela da soli (pre-distribuzione) o intervenendo prontamente con chi non ce la fa (redistribuzione).

Ora ditemi, è di destra tutto questo?

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