Partiti e politici

Il lusso di sentirsi soltanto uomini liberi (e senza sensi di colpa)

12 Ottobre 2016

Leggendo su Repubblica la straordinaria «Lettera a mio figlio» di Siegmund Ginzberg, giornalista che ha girato e raccontato mezzo mondo per l’Unità, ho provato sentimenti di cui avevo perso le tracce. Da una parte mi sono commosso, da padre, per  via di quell’ordigno sentimentale che ci agita dentro quando disapproviamo una scelta importante, ma sentiamo la necessità assoluta di comprenderne il valore. In questo caso la scelta molto forte di non votare Hillary Clinton, pur essendo distanti anni luce da Donald Tramp. «Ma come – chiede Siegmund al figlio – tu che non voteresti mai per Trump, non voti per Hillary a rischio di far vincere Trump?» La risposta del figlio, che non è più ragazzo ma ormai uomo fatto, è semplice e diretta: «Trump presidente sarebbe terribile per l’America. Ma Hillary potrebbe essere terribile per il mondo… Non c’è situazione di crisi che la Clinton non abbia esarcerbato con la sua teoria dell’uso calcolato della potenza militare americana: la Libia, la Siria, l’Ucraina. Fu una dei suoi vice, Victoria Nuland, a farsi intercettare con quel: “Fuck Europe!”» Nel pezzo, imperdibili le “confessioni” familiari di Ginzberg, che solo oggi, e tramite Repubblica, rivela d’aver taciuto al figlio un errore nella compilazione della scheda per le primarie dove il figlio aveva scelto Sanders e che quindi è tornata indietro, annullata.

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La parte però che davvero emoziona ci racconta di quel percorso intellettuale che ha portato il figlio di Ginzberg a smarcarsi non solo dal padre, che appunto ricorda quel trauma, ma anche dalla corrente dominante secondo cui se non sopporti il tamarro Trump dovrai necessariamente finire tra le braccia di Hillary. Un male minore comunque inaccettabile per Ginzberg junior. In questa strettoia politica, e nella scelta di non farsi stritolare, si ritrovano le ragioni fondative della nostra antica passione per la politica. Che portò tutti i ragazzi di quel tempo lontano a combattere per i principi della politica, senza immaginarne i compromessi. Idealisti? Certo. Ingenui? Ma come no. Eppure su quella bella verginità che credevamo di possedere – nessuno di noi ne poteva detenere più che un frammento – ognuno di noi poté costruire la propria identità politica e morale. Il figlio di Sigmund Ginzberg ci racconta di una ribellione, in buona sostanza. Una ribellione a due moloch della politica per via compromissoria: il senso di colpa e l’appartenenza. Il senso di colpa in politica è terribile (e non solo in politica, ovviamente). Significa costringersi a una gabbia, dove avranno sempre la meglio sentimenti diversi da una vera e piena autodeterminazione intellettuale. Per fare un esempio concreto molto vicino a noi: gli anni di Silvio Berlusconi. Quante volte – ma quante – ci hanno detto che se non avessimo votato in una certa maniera, e cioè a sinistra, avremmo fatto il suo gioco, il gioco del bau-bau spaventevole, del tiranno senza freni, dell’uomo pericoloso per il nostro futuro e quello dei nostri bambini, che nel frattempo stanno comunque crescendo in una certa serenità? Millanta, almeno. E ogni volta che ci si sottraeva a questo gioco perverso, e magari il Tiranno vinceva, il senso di colpa montava e l’enunciazione ad amici e parenti di questa assenza dalla lotta produceva uno sdegno collettivo degno di miglior causa.

Bene. Cosa ci racconta la vicenda familiare di Sigmund Ginzberg e di suo figlio? Una ribellione al senso di colpa, quel senso di colpa che si insinua maledetto nelle nostre insicurezze sociali e che scava, scava, sino ad avere ragione di noi. Amorevolmente, papà Sigmund gli dice: “Ma come, tu che non voteresti mai per Trump, non voti per Hillary a rischio di far vincere Trump?” La domanda non solo è legittima, da padre a figlio, ma è perfetta per identificare quel crepaccio che separa la politica del compromesso dalle nostre passioni originarie, che un tempo ci fecero battere il cuore e che oggi in un tempo più maturo vogliamo finalmente riprendere in mano e immaginare di votare finalmente secondo coscienza. Non si dice forse sempre così: “secondo coscienza?”. Ebbene, è questo il momento secondo Ginzberg junior. Non voterò Hillary, dice, neppure con lo spauracchio dell’improbabile Donald sulla testa.

Il secondo grande momento di liberazione riguarda l’«appartenenza». Quel piccolo o grande luogo dove rientriamo politicamente, dove condividiamo istanze con altri come noi, e che in ultima analisi l’organizzazione politica definisce “partito”. E che sì, può essere un aggregatore di istanze, di partecipazione, anche di sentimenti. Ma che non può diventare la gabbia. Per noi ragazzi di quel tempo i partiti erano una gabbia. Ginzberg sembra riprendersi quel ci è stato tolto negli anni, decide di andare alla  fonte della sua autodeterminazione per chiedersi: aver sempre votato per i democratici porta degli obblighi ulteriori, dei carichi non espressi, delle condizioni obbligate. In una sola parola: costringersi a votare Hillary per disciplina di partito? La risposta è un meraviglioso e rivoluzionario No.

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Non vorrei spegnere gli entuasiasmi di chi, tra i più giovani, ai partiti ci crede. Ma in questo piccolo lessico familiare dei Ginzberg ho ritrovato le ragioni dello stare insieme, di una socialità politica che si confronta soltanto con il territorio aperto della mente, a cui concedere persino il lusso di sentirsi uomini liberi.

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