Partiti e politici
Il governo militare, il gioco dello scaricabarile e certa classe dirigente
In questo post sarò franco. Da sincero e convinto democratico, il sintagma “governo militare” ha su di me sempre uno strano effetto, persino quando – in una conversazione scherzosa, in un thread su Twitter – viene inserito in uno scenario di paradosso, di provocazione, di periodo ipotetico dell’irrealtà. Soprattutto alle soglie di agosto, quando la mente guarda ai monti e al mare, e vorrebbe concedersi una pausa.
Chi tira in ballo concetti come la “finestra di Overton”, o metafore quale la “rana bollita” di Chomsky, fraintende e sbaglia. In Italia sono tutti sinceri e convinti democratici liberali, non si scherzi! Senz’altro lo sono i cittadini (di destra, sinistra, centro), che sono assai più attaccati alla democrazia di quanto non si pensi.
Del resto i paradossi sono, appunto, solo questo: paradossi, provocazioni che magari vengono fraintese, e che hanno come unico effetto quello di scatenare la consueta polemica quasi-agostana, che lascia perplessi non soltanto “ordinari” cittadini (senz’altro poco familiari con il lessico incredibilmente erudito e sottile dell’analisi politica, specie quando gioca coi paradossi), ma noti cronisti e direttori di giornali, politici, professori universitari.
Vabbè. Siamo la terra delle boutade. Certo, si tratta di boutade che forse non giovano al clima politico, e che credo lascerebbero interdetti i Padri costituenti. Loro, si sa, erano gente abituata a pesare le parole, da uomini ottocenteschi quali erano. Ve lo immaginate Alcide De Gasperi in un talk-show? Ferruccio Parri o Nenni che lanciano boutade e provocazioni?
Mi si consenta però una considerazione di carattere più generale, che già da qualche anno ho in testa. Da discendente di un siciliano che partecipò alla Terza guerra di indipendenza, da pronipote di un artigiano che sul Tagliamento, durante la Grande Guerra, si guadagnò encomi e medaglie, e da nipote di un onesto lavoratore che fu spedito in Grecia a combattere e tornò in Sicilia senza medaglie, ma con la malaria, e soprattutto da italiano che si commuove quando vede garrire il tricolore o legge una lapide con il Bollettino della Vittoria, rimango sbalordito dall’idea bislacca che un pezzo della classe dirigente italiana ha delle forze armate.
Due premesse. La prima è che con classe dirigente non intendo solo classe politica, e per non tirare in ballo Pareto o Gramsci ed essere conciso dirò con una boutade (tanto le boutade son concesse, no?) che è classe dirigente chi appare spesso in TV per dispensare suggerimenti al Presidente della Repubblica, o almeno per dire la sua su temi quali l’economia, il lavoro, la politica estera, la scuola, i trasporti, l’ambiente, la giustizia, il contenimento del Covid-19, il ddl Zan, l’Europa ecc.
La seconda premessa è che in Italia non si parla quasi mai di ciò che fanno le forze armate. L’interesse da parte di una larga fetta della nostra classe dirigente è pari a zero. I caduti in qualche teatro lontano, il lavoro, i sacrifici e gli sforzi degli uomini e delle donne in divisa passano 9 volte su 10 sotto silenzio. Così come passano sotto silenzio la cronica mancanza di fondi, gli organici da rimpinguare, o il fatto che ai volontari in ferma breve venga negata la NASpI.
E tuttavia, quando servono le forze armate ci sono sempre: per i terremoti e le alluvioni, nel contrasto alle pandemie e al terrorismo. Ricordo molto bene, da ragazzino a Catania, le camionette militari e i soldati dell’operazione Vespri Siciliani, e ricordo pure come quelle camionette, quegli uomini, dessero un po’ di serenità ai tanti, tantissimi catanesi onesti nella cui testa rimbombavano ancora le parole dell’arcivescovo Pappalardo ai funerali del generale Dalla Chiesa, il gracchiare della radio o della TV che annunciava la strage di Capaci, la strage di Via D’Amelio. In un’isola in guerra contro un nemico terribile e mortale, tra gente che aveva la sensazione di essere dimenticata dallo Stato, quelle camionette e quei soldati erano un presidio di legalità, di Stato, di futuro.
Nel 1980, in Friuli, le forze armate fecero il loro dovere. E lo stesso in Libano nel 1983. In Kosovo nel 2004. In Afghanistan sino a ieri, nei centri per le vaccinazioni oggi. Ma non dimentichiamoci, ai tempi dei nostri bisnonni e nonni, della Battaglia del solstizio, di Vittorio Veneto, Cefalonia, Montelungo. Può piacere o meno, ma l’Italia unita è stata fatta anche sui campi di battaglia: Cavour fu un genio politico e diplomatico, ma ebbe bisogno anche dei granatieri di Sardegna, dei bersaglieri, dei cacciatori delle Alpi e delle Camice rosse di Giuseppe Garibaldi. E la Resistenza fu fatta da tante Resistenze: accanto alla resistenza socialista, giellina, comunista, cattolica e monarchica ci fu anche la resistenza dei nostri militari.
Forse una fetta della classe dirigente italiana non sa dare esattamente il peso giusto a ciò che si chiama abnegazione, disciplina, senso del dovere, onore, sacrificio, patriottismo. Del resto queste virtù (che non sono solo militari, anzi: «in uno Stato popolare occorre […] la molla della virtù […] Questa virtù la possiamo definire quale amore delle leggi e della patria; amore che, richiedendo una continua preferenza dell’interesse pubblico al proprio, dà tutte le virtù particolari» scriveva Montesquieu) sono alla base di ogni democrazia vitale e creativa, di ogni repubblica che voglia preservare nel tempo la sua esistenza.
Anzi, addirittura credo che una fetta della nostra classe dirigente, con la sua esterofilia e il suo snobismo, sia quasi anti-patriottica. E chi si permette di farle la morale viene tacciato di moralismo. Parri, Berlinguer, De Gasperi, Enzo Biagi, Enrico Mattei ecc. vanno celebrati, non emulati!
In compenso una buona fetta della nostra classe dirigente eccelle in un particolare gioco: quello dello scaricabarile, del lasciare che siano altri a toglierle le castagne del fuoco… nel 1993 fu Carlo Azeglio Ciampi, nel 2011 è stato Mario Monti, nel 2021 è Mario Draghi, e avanti di questo passo. Più o meno ogni decade una robusta porzione della nostra classe dirigente invoca un salvatore della patria. Proprio come è solita reclamare l’intervento delle forze armate quando c’è un qualsiasi problema, fosse anche raccogliere l’immondizia o presidiare i giardinetti. Fa uno strano effetto vedere uomini capaci e addestrati, che magari hanno servito in Afghanistan o Iraq, dover vegliare su pochi metri quadrati di ghiaino in una cittadina del Nordest; non ci sono talebani in Veneto, non ci sono IEDs in Trentino o in Alto Adige, che io sappia…
Periodicamente pezzi dell’establishment reclamano un salvatore della patria. Ma i salvatori della patria vanno e vengono (abbiamo visto, per esempio, la gratitudine di molti verso Monti, che da primo ministro elogiavano); in compenso la citata fetta di classe dirigente resta, e anzi è sempre la stessa dagli anni ’80: gente che parlava e scriveva molto, anzi moltissimo, quando l’Italia era ancora la quinta o sesta potenza economica mondiale, e parla e scrive molto, moltissimo (troppo?) oggi, pur avendo chi una sessantina d’anni o giù di lì, chi una settantina, chi magari sfiora l’ottantina. E la pensione? Quando vanno costoro in pensione?
Se l’Italia non funziona, non è solo colpa della politica italiana. C’entra anche chi, in questi anni, codesti politici li ha coccolati, elogiati, (mal)consigliati, gonfiati, sostenuti, adulati. Certi recenti o recentissimi miti politici – gente che scala i sondaggi a suon di esternazioni roboanti e proposte deliranti, e che nella vita ha fatto solo politica o quasi – non esisterebbero senza i mielosi fiumi di parole e di inchiostro, gli evviva e le turibolate che in altri paesi europei sarebbero considerati degni di una democratura sudamericana.
La verità è che questi pezzi della classe dirigente, spesso ornati di candide canizie, che nella vita hanno soprattutto parlato e scritto, e che del paese reale ahimè sanno ben poco (hanno mai lavorato in una PMI? Hanno mai avuto il conto corrente sotto i mille euro, o fatto i pendolari sui regionali per anni? Si sono mai sorbiti un turno serale in fabbrica? Hanno mai guidato un Lince? Hanno mai intubato un paziente?), sono corresponsabili dei guai dell’Italia quanto quei politici che, negli ultimi tempi, tanto criticano. E non basterà loro coprire di elogi Draghi (elogi spesso untuosi e ipocriti, falsi) per riuscire nel miracolo di risanare il paese. Il pensiero magico non funziona, per quanto certi sessantenni possano credere al potere taumaturgico delle proprie parole.
Né questi pezzi di classe dirigente potranno continuare in eterno il gioco dello scaricabarile, e dello spedire qualcuno in trincea mentre loro rimangono nelle retrovie, a godersi lo spettacolo e commentare, e tifare per l’uno o per l’altro ma sempre con il sorriso sulle labbra, e l’albagia nello sguardo, e la sicurezza nel cuore: tanto chi affonda siamo noi, non loro.
Le forze armate sanno bene quanto è difficile far ripartire un territorio o un paese, anche piccolo come il Kosovo, specie quando non c’è una classe dirigente all’altezza. Far ripartire il nostro paese è un affare assai complicato, anche per i leader più geniali. L’Italia, del resto, non l’hanno fatta solo Cavour, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Mazzini, ma anche le Camicie rosse, i poeti, gli artisti e i romanzieri, i carbonari senza nome, i patrioti borghesi (avvocati, notai, medici, commercianti, studenti ecc.) che morirono a Custoza, a Solferino, a Varese, a Magenta. Le riserve della Repubblica servono, ma occorre anche il resto.
Sinché questo pezzo di classe dirigente vecchio e ormai inadeguato, che ai talk-show oscilla tra il farfugliamento, l’invettiva e l’adulazione, non se ne andrà in pensione, a Capalbio o sul Chianti o in Costa Azzurra, e non si dedicherà al giardinaggio e alle letture amene nell’intimità degli affetti, e sinché non verrà dato veramente spazio alle decine di migliaia di capaci trentenni, quarantenni e cinquantenni che l’Italia ha, e che spesso sono costretti a emigrare (o che magari restano, e sudano sette camicie, lavorando in questo difficilissimo paese), l’Italia non ripartirà. E certi incapaci politici avranno ogni giustificazione per non evolvere.
Ed è inutile parlare a vanvera di meritocrazia e di liberismo, perché a oggi la meritocrazia ha riguardato quasi sempre solo pochissimi fortunati rampolli, e il liberismo è speso andato a braccetto con i monopoli e gli oligopoli, con consulenze, rendite di posizione e con l’ossessiva protezione di corporazioni e lobbies molto danarose (che questo non sia, tecnicamente, liberismo, è indifferente: del resto l’unica democrazia capitalistica che i russi conoscono fu quella miserabile degli anni di Yeltsin, e anche se quella roba non era una vera democrazia capitalistica, i russi quella roba conoscono).
Non è possibile continuare a credere al folle sogno del salvatore della patria, al miraggio dell’uomo della Provvidenza che certuni ci ammanniscono: perché l’Italia non è un borgo marittimo di mille abitanti, né una città d’arte di centomila, ma è un grande e complicato paese da sessanta milioni di persone, bagnato da un mare assai complicato che si chiama Mediterraneo, e dove da qualche anno a questa parte le tensioni si stanno accumulando. Né si può anche solo immaginare, neanche per scherzo o paradosso, che dopo Draghi si possa buttare la croce addosso alle forze armate. Chi rompe paga, e i cocci sono suoi; e se non ha di che pagare, almeno vada in pensione.
Una certa parte della nostra classe dirigente vorrebbe mettere il paese in naftalina. Congelarlo, ibernarlo, e con esso ibernare se stessa. Poveri illusi: a costoro, cresciuti nella fase di massima prosperità dell’Italia, in un’estate lussureggiante che oggi è un freddo autunno, la vecchiaia ultima spaventa. Questo pezzo di establishment, che un tempo forse credeva in qualcosa, oggi non crede più in nulla: né in Dio, né nella democrazia, né nell’Italia. Ma c’è chi in Dio, nella democrazia, nell’Italia crede ancora. Senza voler giocare allo scaricabarile con le forze armate, che già sin troppo fanno per il paese, nell’indifferenza di chi pensa di avere solo maggiordomi, e l’eternità di fronte a sé.
Foto tratta da Pixabay.
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