Partiti e politici
Il governo controvoglia
Matteo Renzi ha deciso, liberamente, di appendere il suo destino politico all’esito delle riforme istituzionali e del referendum confermativo che la Costituzione prevede. Non era obbligatorio, e non era necessario, né fare le riforme né decidere di far dipendere il proseguimento regolare della legislatura e della sua presidenza dall’esito del voto referendario. È stata una scelta del segretario ed ex premier, anzitutto, del suo partito che lo ha seguito, della sua cerchia di fedelissimi che lo ha aizzato. Prendersela con chi ha votato no è come prendersela con il medico che ti dice che hai il colesterolo alto: era meglio mangiare meno salsicce fritte prima, invece di incazzarsi dopo.
L’impossibilità di votare subito per assenza di una legge elettorale potabile, resa esplicita dal Presidente della Repubblica ma piuttosto autoevidente a tutti almeno fino a prima del resultato referendario, ha obbligato alla nascita di un nuovo governo. Le richieste del Pd – governo di tutti, o addirittura “governo dal fronte del No” – stavano da sempre al di fuori del perimetro della ragionevolezza politica e, perfino, di quella matematica, visto che alla Camera c’è un partito che ha la maggioranza assoluta, ed è appunto il partito democratico.
Matteo Renzi, voglioso di una resa dei conti all’interno del Pd ma anche – soprattutto – di tagliare la strada sul tempo ad ogni ipotesi credibile di alternativa interna, sembrava convintissimo di chiamare al più presto un nuovo congresso e nuove primarie: per stravincerle, almeno quelle, e poi cercare nuovo slancio verso urne veloci, nel cuore dell’inverno o comunque ben prima della primavera. Oggi, tra le pieghe dei giornali, emergono le prime ipotesi di ripensamento sulla strategia: lo spin renziano continua a vedersi bene, e infatti sarebbe colpa delle opposizioni interne che cambiano idea, il cambiamento di strategia di Renzi, che – addirittura – voleva fare il congresso presto perché questo gli era in passato stato richiesto proprio dai suoi avversari interni. Vedremo dove cadrà la palla, e anche quando la smetteremo di raccontarci palle.
Intanto, però, un governo c’è, e sempre dai giornali emerge la sensazione, piuttosto condivisa, di un governo controvoglia. Tra ministri che si pentirebbero di aver accettato (Anna Finocchiaro), a parlamentari di maggioranza che votano la fiducia con l’allegria di un deportato, viene spontaneo chiedersi che senso abbia tutto questo. Non parliamo qui di cose nobili della politica, sia mai, di quella missione alta di fare il bene comune sempre, con spirito di servizio. Parliamo invece di quella cosa concreta, pratica che è la politica che anche deve costruire percorsi lineari di consenso. Lo diciamo anche mettendoci dal lato, dal punto di osservazione e di obiettivo, di Matteo Renzi. Stare al governo dopo aver promesso addirittura di lasciare la politica in caso di sconfitta era troppo? Certo, era troppo. Ma il problema – diciamolo, ancora – è stato promettere la fine della propria carriera politica in caso di sconfitta. E in ogni caso, davvero questo governo triste e obtorto collo, con dentro a ogni costo due fedelissimi di continuità come Luca Lotti e Maria Elena Boschi, davvero non farà peggio a Renzi e al suo consenso personale e di partito, di quanto avrebbe fatto un suo governo concentrato sulle cose da fare?
Ultima nota, non marginale. Tra le ragioni per andare al voto politico in primavera – si dice – c’è la ferma volontà di evitare il referendum sul Jobs Act che è destinato a cadere tra aprile e giugno dell’anno prossimo, il 2017. L’unico modo per scongiurare una nuova ordalia sarebbe, in realtà, quella di fissarne un’altra, più grossa, cioè le elezioni politiche. Fingendo di ignorare che il referendum riguarderebbe poi una delle riforme considerate dall’esecutivo di Renzi e dalla sua propaganda un“fiore all’occhiello”. Fingendo di credere che gli italiani siano tutti stupidissimi, e che quindi non si accorgerebbero del giochino.
Insomma, un gran bel casino. Tanto grande e pantanoso da far sparire l’inconsistenza ed evidente inadeguatezza delle alternative, ben raffigurate dal video notturno con cui Virginia Raggi annuncia – nottetempo – di aver accettato le dimissioni lungamente attese, quelle dell’assessora Muraro. Nottetempo, per non finire sui giornali del giorno dopo, e per coprire al meglio la notizia. Roba da paleolitico, da epoca pre-internet e già post-verità, roba da Prima Repubblica. E anche stavolta, i grillini, sembrano essere al passo coi tempi.
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