Partiti e politici

Il futuro della Fondazione Einaudi e il ritorno della politica

10 Ottobre 2015

“Biblioteche ed archivi non su prestano ai traslochi. In cinquant’anni la Fondazione Einaudi di Roma ne ha conosciuto soltanto uno da Paizza in Lucina a Largo dei Fiorentini”.

È l’attacco con cui Valerio Zanone, a lungo segretario del Partito liberale italiano e poi per molti anni Presidente della Fondazione Einaudi di Roma inizia il suo testo di riflessione sulla Fondazione Einaudi (Cinquant’anni sono lunghi) compreso nel volume Cinquant’anni d’impegno. Nel nome di Luigi Einaudi e di un “liberalismo senza aggettivi”, pubblicato nel 2012.

In quel volume Mario Lupo il presidente attualmente in carica concludeva il testo d’introduzione (1962-2012: Il nostro primo mezzo secolo) a quel volume scrivendo: “Noi amministratori siamo già in cammino per la prossima tappa, con risorse materiali scarse, ma con la cospicua eredità della nostra storia e grande ricchezza d’idee e voglia di fare”.
Tre anni dopo sembra che la Fondazione Einaudi, fondata nel 1962 dal Partito liberale italiano per diffondere la cultura liberale nel nome di Luigi Einaudi, non abbia un futuro certo e, anzi, si avvicini alla fine.

La notizia di ieri è che Silvio Berlusconi ha offerto 200mila euro per evitare la liquidazione della Fondazione a patto che sia nominato un nuovo Cda designato dai nuovi soci. Di questo deve decidere  un’assemblea il 28 ottobre, mentre è già stato annunciato il no dei presidenti onorari Valerio Zanone e Roberto Einaudi. Meglio la liquidazione, scrivono al presidente Mario Lupo, che mettere l’istituzione “a disposizione di un partito politico.”
Capisco l’amarezza e il senso della sconfitta. Quando un ente è sull’orlo della fine e qualcuno interviene per salvarlo rimettendone in discussione gli assetti e di fatto candidandosi a impadronirsene, è sempre un boccone amaro per chi fino a quel momento ha tentato di farlo esistere e ha fatto dell’autonomia una bandiera della identità materiale e ideale di quell’ente.
E tuttavia non sarei così triste. In questa notizia che ha il suo lato amaro, c’è un dato da non sottovalutare: la fine dell’ideologia dell’antipartito, in altre parole uno dei pilastri dell’inconsistente “Seconda Repubblica”.
Mi spiego.
L’idea all’inizio era che i partiti erano in sé un male, e che ancora peggio lo erano quei partiti che si erano dotati di un ente volto alla formazione del proprio gruppo dirigente, locale e anche nazionale. L’idea era non solo che la società civile sapeva far meglio dei politici, ma che erano sufficienti la preparazione e le competenze del proprio essere professionali. La politica era pura tecnicalità  alla portata di chiunque per la quale non occorreva nessuna competenza specifica. Anzi, la politica era disvalore e i politici suscitavano disprezzo.

Non era questo il linguaggio vincente e sicuro del futuro dal 1993, dal famoso discorso trasmesso da casa propria, da Arcore” “L’Italia è il paese che amo”?

Venti anni dopo si scopre che invece occorre una scuola di politica. Probabilmente a Forza Italia, o a quel che rimane oggi di ciò che era Forza Italia, sarebbe andato meglio cercarsi un nome di garanzia diverso (azzardo: Alcide De Gasperi) ma non si può. E allora occorre “accontentarsi” di una vera tradizione liberale, in un paese che di liberali, o autonominatisi tali ne ha avuti tanti, ma che poi di autentici liberali ne ha avuti pochi e in quel nome, provare a costruire una classe dirigente. Venti anni dopo, dunque si torna al punto di partenza, cambiando, senza ammetterlo, il punto di partenza: la necessità di formare una classe dirigente.

È una conclusione che non è valida da una sola parte. Forse lo capiranno anche dall’altra parte. Perché quando improvvisamente si vuol tentare di riprendersi in mano la politica e si scopre dopo molti anni che avrebbe senso che, per esempio, il prossimo sindaco di Milano fosse un politico e non qualcuno rintracciato nella società civile che si presti, in nome della sua estraneità alla politica, e dunque virtuoso di per sé, allora forse anche di là tornerebbe buono riflettere sulla necessità di una scuola di politica organicamente legata a un partito. Anzi della ricostruzione di un partito politico moderno, in cui la politica sia una competenza che vale e non un disvalore. Che sia finita, finalmente,  la Seconda Repubblica?

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.