Partiti e politici
Il finanziamento privato ai partiti sta corrodendo la democrazia
Il corso populista degli eventi non ama la complessità né il pensiero critico. Restituendoci un’epoca masticata dal conformismo, svogliata nel comprendersi, incapace di mettersi in discussione, fanatica.
Un’epoca in cui un dibattito sull’integrazione si trasforma, con estrema disinvoltura, in uno spettacolo propagandistico imbottito di tortellini e crocifissi.
In cui cantantucoli pop, bigotti in naftalina, istrioni farneticanti e relativa prole intellettuale si ritrovano a discorrere di bioetica, energia nucleare e apocalisse climatica nei pochi spazi informativi lasciati liberi dalla solerzia social dei politici di grido. Abilissimi a “costringere” i media a parlare di sé a comando, decidendo, di fatto, anche cosa devono tacere. Trump docet.
Un’epoca in cui il disallinearsi dall’agenda politica populista, anche per chi fa informazione o commento, somiglia sempre più a un tabù, avendo il corso populista degli eventi fagocitato quasi per intero persino il campo della notiziabilità. Con il segmento giornalistico lontano dal trending topic ad arrancare e a cercare antidoti.
Ciononostante, fregandocene per una volta delle pressioni di questa compiaciuta epoca con cui fatichiamo a sintonizzarci, abbiamo deciso di trattare lo stesso un tema non più in voga. Quantunque, a nostro avviso, urgente, perché strutturale per la conservazione degli equilibri democratici: il finanziamento privato ai partiti; prassi consolidata in tutte le democrazie “evolute”.
Premessa. Il lettore non deve sorprendersi se tale argomento viene sottaciuto o dato per archiviato in via definitiva. Siamo pur sempre in terra di tangentopoli, di debito pubblico astronomico, di clientes, di classi dirigenti corrotte e lottizzatrici. I partiti, in fin dei conti, godono, e con merito, di una pessima reputazione anche oltre il perimetro del qualunquismo.
Chiunque abbia il polso dell’elettorato sa bene che quest’ultimo derubricherebbe come “imperdonabile spreco” un eventuale ripristino del finanziamento pubblico, abolito da un referendum del 93, poi riemerso in altre forme, poi ri-abolito da Letta nel 2014: per poppare pecunia dalle sacre tasche degli italiani, già messe a dura prova da quest’infinita convalescenza post-recessione pronta a sbranarne i risparmi superstiti, ci si deve presentare con l’armatura. E i partiti, storicamente compromessi, appaiono nudi. Il “popolo”, preda delle pulsioni anti-casta, li osteggia, le élites politico-economiche ne prendono atto e si adeguano.
Tuttavia, questo adeguarsi, un morbidissimo adeguarsi, nasconde consistenti insidie sul piano della rappresentatività, compromettendo la tenuta della democrazia così come la conosciamo, facendola virare, nella sostanza, verso un vocabolo molto anni venti, la plutocrazia.
In breve: la politica costa. E in pieno corso populista degli eventi costa anche di più. Senza una propaganda espansiva e martellante, al giorno d’oggi, un qualsivoglia soggetto partitico o movimentistico rischia il dissolvimento in tempi rapidissimi, a prescindere dai contenuti che veicola.
Di conseguenza, se i partiti, per sopravvivere, possono contare soltanto sui rifornimenti dei grandi finanziatori privati, chi ci garantisce che gli eletti non si facciano condizionare nella propria azione politica principalmente da coloro che, di fatto, ne permettono, in termini materiali, la sopravvivenza?
In altre parole, se per élites intendiamo l’alta finanza, i banchieri, l’imprenditoria dagli imponenti fatturati, gli industriali, eccetera, e per “popolo”, dileguandone una buona volta la retorica opacità, intendiamo il ceto medio impoverito, l’enorme massa dei precari cronici e l’enorme massa dei disoccupati cronici, non possiamo non rilevare uno straordinario paradosso: il comparto populista è finanziato quasi esclusivamente proprio da quelle élites che vorrebbe combattere.
Il che ci conduce a due possibili scenari: o crediamo, esponendoci al riso della storia, che le élites, cioè l’insieme delle forze del mercato, stiano combattendo contro se stesse attraverso la mediazione della politica oppure crediamo che il populismo, sovvenzionato dai suoi antagonisti naturali, sia una gigantesca presa per il culo di quello stesso “popolo” che propagandisticamente difende.
A questo punto, per renderci conto della portata del fenomeno e delle sue implicazioni, ci basterebbe dare una rapida occhiata alla mappa dei finanziamenti privati. I quali toccano, bene o male, l’intero arco dell’attuale rappresentanza politica.
Il 72% dei finanziatori privati di Matteo Renzi nel 2013: Davide Serra, amministratore delegato del fondo speculativo Algebris (100.000 euro); Paolo Fresco, ex presidente Fiat ed ex numero due della multinazionale americana General Electric (25.000 euro); Isvafim Spa (60.000 euro), che fa capo ad Alfredo Romeo, sotto processo per la vicenda Consip; e poi petrolieri, armatori, ecc. Un’Italia viva. Anzi, vivissima.
Rimanendo nell’area PD-amarcord, Letta fu destinatario di una donazione da parte di Antonio Porsia, leader nazionale nel campo delle slot machines (15.000 euro) e del pastificio Rana (25.000 euro). Mentre Bersani fruì – correva l’anno 2006 – dei fondi elargiti dal gruppo siderurgico Riva, a guida dell’Ilva (98.000 euro), per la sua campagna elettorale. Lo stesso Bersani che, guarda caso, ricoprì la carica di ministro dello sviluppo economico dal 2006 al 2008.
Passando al M5S, (parola degli ex collaboratori Canestrari e Biondo – autori di una controstoria del Movimento) è noto che la società di consulenza strategica che vigila sul destino della piattaforma pentastellata collabora con “colossi del calibro di Carta Sì e Banca Intesa, per conto delle quali produce analisi di mercato e campagne di informazione online”. Senza considerare la presenza di alcune multinazionali “che finanziano gli affidabilissimi portali di Casaleggio Associati: tzetze.it, la-cosa.it, lafucina.it” o il fatto che la C.A. sia anche partner di Google. Credenziali che di sicuro gettano più di qualche ombra sulla credibilità del grillismo in qualità di forza anti-sistema.
Dopodiché, tocca alla Lega e alle annesse accuse, rispedite al mittente da Salvini, di aver imbastito trattative sottobanco con la Russia per ingrassare le casse del proprio partito. Dinamica che si appiglierebbe, come rileva un’inchiesta del Telegraph, a un dossier prodotto dall’intelligence americana in cui si fa riferimento a una strategia di soft-power meditata dal governo russo. Strategia che farebbe leva su un’interlocuzione continuativa con le molte fazioni populiste dei paesi dell’Unione Europea (Ukip, Front National, Alba Dorata, Jobbik, ecc.) e, in alcuni casi, su un foraggiamento economico esplicito: la Le Pen avrebbe richiesto un prestito di 9 milioni di euro alla First Czech Russian Bank, in orbita Putin. L’obiettivo? Destabilizzare il Vecchio Continente dall’interno.
Ah, essendo in tema di “Russian Connection”, quasi dimenticavamo Berlusconi, storicamente il più sponsorizzato e non solo da se medesimo: tra i tanti, come non citare i Riva (330.000 euro); gli stessi che qualche anno dopo avrebbero sovvenzionato lo smacchiatore di giaguari Bersani, sebbene, buttando uno sguardo alle cifre, credendoci di meno. Un Berlusconi che, paradossalmente, si è rivelato finanche più trasparente degli altri, disintermediando il rapporto tra politica e affari, disintermediando il conflitto d’interessi, proponendosi come destinatario del consenso non per interposta persona.
In fine, come non citare i finanziatori a tappeto, Benetton su tutti. Artefice, nel 2006, di una donazione di 1,1 milioni di euro equamente suddivisi tra tutti i partiti coinvolti nella competizione elettorale: “Un assegno di 150 mila euro ciascuno per la coalizione di centrodestra, Alleanza nazionale, Forza Italia, Lega Nord e Udc; stessa cifra per la coalizione di centrosinistra, Comitato per Prodi, Democratici di Sinistra, La Margherita e soltanto 50 mila euro per la piccola Udeur di Clemente Mastella”.
Ricapitolando: non c’è bisogno di scomodare eventuali gigli magici per comprendere che la nostra democrazia, in libera uscita, si stia trasformando in una lobbycrazia o plutocrazia semitrasparente. D’altronde, quando constatiamo che il graduale incremento delle donazioni private ai partiti sia andato a combaciare con il progressivo smantellamento dei diritti dei lavoratori e con l’aziendalizzazione dell’istruzione, diventa difficile credere a una coincidenza.
Pertanto, sic stantibus rebus, come facciamo a risolvere la crisi della rappresentatività, riflettentesi nell’astensione incalzante, se la politica, soprattutto in caso di abolizione veritiera del finanziamento pubblico, si ritrova a rappresentare di necessità, per sopravvivere, le istanze di una minoranza privilegiata?
Il problema, a nostro avviso, non si appianerebbe con un’ulteriore regolamentazione del finanziamento privato, ma con un’abolizione del medesimo congiunta a una equa e rigida regolamentazione del finanziamento pubblico.
Il finanziamento privato, anche reso più trasparente, rischierebbe di mantenere, nell’economia di uno stato democratico, le sembianze di un pericoloso difetto di fabbrica.
Il fatto che gli aiuti economici da parte dei privati stiano convergendo sempre più sui singoli candidati anziché sui partiti unito al fatto che passino attraverso canali sempre meno controllabili (fondazioni, think tank, ecc.), finanziabili grazie alla Lega anche dall’estero (la perfetta concomitanza dell’approvazione del provvedimento con il caso “Savoini” sarà una simpatica coincidenza?), dovrebbero far riflettere sulla deriva in essere.
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