Partiti e politici
il congresso del Pd è finito
Il congresso del Pd è già finito e lo ha vinto Carlo Calenda.
La sua proposta programmatica per le imminenti elezioni europee ha unito praticamente tutto il partito (a cominciare dai due principali candidati segretari) e ha suscitato l’interesse di una parte apprezzabile di società civile; ha sottratto il Pd a un dibattito congressuale ombelicale e l’ha riportato sulla scena della politica italiana, rinnovandolo profondamente. Chapeau.
Il Manifesto del movimento Siamo Europei, reincarnazione calendiana del Partito Democratico, ne esprime con chiarezza la fisionomia ideale e la struttura concreta.
L’elenco dei primi firmatari è formato soprattutto da professori, ricercatori e amministratori locali (sindaci e presidenti di Regione); seguono imprenditori, economisti e rappresentanti di associazioni, mentre vi è solo un’esigua rappresentanza di semplici lavoratori, insegnanti e intellettuali professionisti. La distanza dall’insediamento sociale di un classico partito di sinistra è siderale: Siamo Europei è la casa politica di una élite competente e pragmatica, non priva di una connotazione culturale di matrice cristiana.
E’ ormai da tempo evidente che la struttura di partito tradizionale, con le sue burocrazie e i suoi rituali, non affascina più gli italiani. Calenda la azzera dalla radice: innanzitutto con la scelta di scavalcare il congresso e poi con l’organizzazione che delinea per la sua creatura politica, definita una risposta straordinaria, unitaria (…) che vada oltre le forze oggi in campo: una lista elettorale comune delle forze civiche e politiche europeiste, che dovrà coinvolgere qualificati rappresentanti di associazioni, liste civiche, mondo del lavoro, della produzione, delle professioni, del volontariato, della cultura e della scienza. Ogni componente potrà tenersi identità e simboli e, all’indomani delle elezioni, gli eletti potranno aderire a gruppi parlamentari europei diversi, a seconda della provenienza politica e culturale: questa regolazione quasi anarchica della coalizione per Calenda è lungi dal costituire un problema, perché l’unità di azione sarà garantita dall’unità di intenti. Lo scopo evidente è cooptare una nuova classe dirigente e rimuovere tutte le liturgie partitiche, sostituendole pragmaticamente con una leadership efficace la cui presenza e il cui ruolo sono impliciti nel Manifesto.
Come dice il nome, il nucleo ideale di Siamo Europei è il convinto europeismo, nella prospettiva della creazione degli Stati Uniti d’Europa: la somiglianza con il partito della Bonino, +Europa, è notevole. Ciò che caratterizza la nuova iniziativa politica è l’urgenza degli europeisti democratici di contrapporsi ai sovranisti illiberali oggi al governo, che mettono a rischio la permanenza dell’Italia nell’UE e nell’euro; più in generale, l’intenzione è di combattere a livello europeo una battaglia per la democrazia, necessaria per fronteggiare il rischio concreto di un’involuzione democratica nel cuore dell’Occidente. L’operazione politica di Calenda ha quindi il senso di un frontismo di emergenza, che deve rifondare l’Europa per non distruggere le conquiste di tre generazioni di italiani: un obiettivo che tende a coagulare un’adesione di tipo difensivo e conservatore.
Il nuovo Pd che sembra emergere è l’esatta incarnazione dell’avversario ideale dei sovranisti illiberali, che avranno gioco facile a descriverlo come un’ammucchiata elettorale unita solo dalla volontà di resistere al cambiamento, un fortino delle élites che non vogliono perdere il proprio ruolo: non ha quindi tutti i torti Enrico Letta, che lo definisce “il favore più grosso che puoi fare ai populisti”. E’ però anche vero che, da qui a qualche mese, la luna di miele tra il governo giallo-verde e gli italiani sarà terminata e, se il movimento europeista di Calenda sarà l’unica opzione alternativa in campo, questo potrebbe garantirgli un certo successo.
Ciò che noi elettori possiamo registrare, è la definitiva trasformazione del Pd in partito dell’establishment, in perfetta continuità con la fase precedente. Nell’analisi contenuta nel Manifesto non vi è infatti una vera critica dello status quo europeo: la crisi profonda dell’intero Occidente è descritta come effetto della velocità del cambiamento innescato dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica, nonché dell’’incapacità di gestire i flussi migratori, che hanno determinato l’aumento delle diseguaglianze, l’impoverimento relativo della classe media e la crisi dell’l’idea di società aperta; di qui la perdita di fiducia di una parte dei cittadini nelle istituzioni e nei valori delle democrazie liberali e il conseguente rischio di derive populiste e autoritarie. Le grandi tendenze di trasformazione globale sono insomma assunte come positive, o comunque inevitabili e i loro frutti avvelenati vanno neutralizzati con una gestione più oculata, mirata a ricomporre le lacerazioni tra progresso e società, tra tecnica e uomo.
Queste due contrapposizioni dicono, più di ogni altra cosa, la base culturale profondamente di destra del progetto di Calenda: il progresso e la tecnica non sono concepiti come al servizio della società e dell’uomo, ma come ad essi antitetici e il ruolo della politica è solamente di ricomporre le lacerazioni più distruttive, insomma di metterci una pezza. In effetti, il vero obiettivo è difendere l’Europa come spazio pacifico e comune di scambi culturali, politici, economici, governato da regole ispirate a valori di libertà, tolleranza e rispetto dei diritti, ma soprattutto come mercato unico di cinquecento milioni di persone, seconda economia e secondo esportatore del mondo; inoltre le sfide cruciali da affrontare – cioè il radicale cambiamento del lavoro, il rischio ambientale e uno scenario internazionale più pericoloso e conflittuale – non sono viste come campanelli d’allarme che richiedono un cambiamento dei paradigmi economici mondiali, ma come fastidiosi effetti collaterali cui porre rimedio per mandare avanti il business as usual; in fondo, lascia intendere il Manifesto, il vero problema è che troppi cittadini sono ignoranti e stupidotti (“l’analfabetismo funzionale (…) sta minando le democrazie persino più delle diseguaglianze economiche”).
Le soluzioni suggerite sono perfettamente coerenti con questa visione: gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda ONU 2030 sono citati cumulativamente e en passant, mentre le vere strategie risolutive da mettere in campo sono: la formazione permanente dei lavoratori, per tenerli al passo travolgente del progresso; un sussidio di disoccupazione europeo esplicitamente indicato come rimedio anti-populista (“laddove esistono alti tassi di conoscenza diffusa e un welfare efficace il populismo non attecchisce”); la gestione dei flussi migratori e il controllo dei confini comuni, marittimi e terrestri; l’aumento degli investimenti europei, soprattutto in ricerca e formazione, ma escludendo la mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali (“la capacità di indebitamento non dipende dai limiti europei ma dall’entità del debito dei singoli Stati membri. Possiamo ignorare le regole ma non per questo troveremo chi ci presta soldi per finanziare deficit insostenibili”); la prosecuzione dell’integrazione europea, se necessario restringendola a pochi Paesi (un cosiddetto gruppo di Roma, contrapposto a quello di Visegrad).
Con questi ambiziosi obiettivi, Calenda troverà sicuramente l’appoggio entusiasta delle madamin pro-Tav e degli snob suoi pari e si procurerà lo spazio politico e mediatico per uno scontro al calor bianco con il fronte sovranista; peccato che nel nostro Paese una voce di sinistra continuerà a mancare.
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