Partiti e politici
Il candidato dei “giargiana”
Il neo-candidato Presidente della regione Lombardia per la destra, Attilio Fontana, è partito subito col botto (mediatico): in un intervento a Radio Padania sull’immigrazione ha sfoderato il peggior lessico xenofobo-fascista, finendo immediatamente sulle homepage di tutte le testate (“se dovessimo accettarli tutti vorrebbe dire che non ci saremmo più noi come realtà sociale, come realtà etnica. Perché loro sono molti più di noi, perché loro sono molto più determinati di noi nell’occupare questo territorio” (…) “dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o se la nostra società dev’essere cancellata“).
Fontana, generalmente descritto come un leghista “pragmatico e moderato”, buon amico di Roberto Maroni, ha in realtà un suo coté radicale: è molto vicino a Terra Insubre, un’associazione che promuove festival e convegni sulla cultura celtica. Che fosse uno studiato stratagemma per attirare l’attenzione o un lapsus (come l’ha definita), di certo la sua uscita scandalosa lo ha messo in sintonia con quella fetta della società lombarda, di solito lontana dai ricchi centri urbani della regione, che si sente minacciata dalla presenza degli immigrati e guarda con favore alla svolta ostentatamente razzista di Matteo Salvini, se non alla sempre più presente Casa Pound.
Con Fontana, la destra inaugura dunque una nuova strategia elettorale: archiviato il volto sobrio e istituzionale di Maroni, punta a mietere consensi tra i “giargiana“, gli abitanti delle periferie e delle province padane impoverite, ponendo al centro della campagna il tema più adatto a suscitare le loro reazioni “di pancia”. All’opposto, il suo principale competitore si rivolge con toni pacati e ragionevolezza alla buona borghesia urbana: sia quella progressista, suo habitat di provenienza, sia quella di destra, che tenta di conquistarsi con segnali inequivocabili (l’ultimo è di pochi giorni fa).
Si delinea così nel voto regionale lombardo una dinamica elettorale già vista nel 2013 e che si ripete da tempo un po’ ovunque: la sfida non è più tra le due diverse culture politiche di destra e sinistra, ma tra due fronti distinti dal punto di vista geografico-antropologico. Da una parte, i colti e benestanti abitanti di città scelgono i partiti “di governo”, garanzia di stabilità; dall’altra, quelli delle zone periferiche e del contado depresso (i forgotten men di Trump, della Le Pen, del Leave nel referendum su Brexit) esprimono un voto “anti-sistema” in segno di protesta.
La stessa dinamica si sta del resto affermando anche a livello nazionale. Il Partito Democratico si pone come “baluardo del sistema” contrapposto alla forza distruttrice del Movimento Cinque Stelle; la fragile coalizione di destra appare pronta a scindersi, subito dopo il voto, in una componente “di sistema” (cioè Forza Italia, partito del raggruppamento dei Popolari Europei, il cui leader Berlusconi è stato recentemente sdoganato come “argine ai populisti”) e una populista (la Lega e Fratelli d’Italia, due forze che basano il loro successo soprattutto sulla demagogia xenofoba e sovranista).
Questa nuova polarizzazione politica potrebbe trovare nella prossima legislatura una sua compiuta espressione parlamentare: le nuove larghe intese tra Pd e Forza Italia, che sembrano ormai messe in conto dai due partiti, non sarebbero più una soluzione emergenziale come lo furono nel 2011 o nel 2013, ma la realizzazione di quel “polo della stabilità” votato dalle aree urbane più agiate. Più improbabile (ma non impossibile) appare la formazione di una maggioranza tra M5S, Lega e FdI, che incarnerebbe il “polo populista” rappresentativo delle zone periferiche e rurali, più colpite dagli effetti della crisi economica.
Viene da chiedersi però se questa nuova fisionomia politica del Paese sia la conseguenza inevitabile di un’evoluzione della società o se sia, almeno in parte, il frutto di precise scelte dei partiti. Lo “schema di gioco” tra Fontana e Gori è in effetti la replica su scala locale di quello cui i principali leaders politici ci hanno abituato da anni: c’è chi fa leva sulla “pancia” degli italiani, sui suoi istinti xenofobi e ribellisti, e chi si contrappone con atteggiamenti “moderati”, che attirano gli elettori preoccupati dai “barbari alle porte“.
E’ un modo un po’ sciatto e sbrigativo di fare politica, perché divide la comunità nazionale in due metà dalle prospettive inconciliabili: proprio il contrario di ciò di cui avremmo bisogno. Ma la campagna elettorale è ormai iniziata e le cose non potranno che peggiorare: rassegniamoci e speriamo che la prossima possa andare in modo almeno un po’ diverso
(l’immagine, tratta da Wikipedia, mostra la distribuzione del voto per il candidato del Pd Ambrosoli (in arancione) e della Lega Maroni (in azzurro) nelle elezioni regionali del 2013)
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