Partiti e politici
Il brand Pd è perdente? Se Calenda e Gentiloni se ne vergognano, il problema c’è
Vergognarsi di un nome, di una sigla, di un brand come quello del Partito Democratico. Immaginando di farlo sparire subito, senza sofferenza, con un tratto di penna, senza neppure una di quelle lacrime che solcarono il volto di Achille Occhetto al congresso del 1990 dopo la svolta della Bolognina. Da allora, sembrano passati secoli. La capacità della sofferenza, l’orgoglio di non opporre le ragioni della politica a quelle del cuore, che in quel caso poi si sovrapposero in maniera persino miracolosa. Dov’è la sofferenza oggi, dov’è finita dopo quel tragico 4 marzo elettorale, che ne è stato del corpo del capo, ne avete forse visto le ferite, le lacerazioni, il tormento o tutto s’è racchiuso in un gesto neppure formalmente definitivo come quelle dimissioni date-non-date?
Oggi nel Partito Democratico c’è una battaglia sottile, ma decisiva. Avviene per mano dell’ultimo arrivato, quello che spingemmo proprio noi di Stati Generali tra le braccia del Nazareno, chiedendogli di buttare il cuore oltre l’ostacolo. La mattina dopo, Carlo Calenda prese la tessera del Pd, non per merito nostro ovviamente, ma ci piace immaginare che le due spinte trovarono una sintesi felice. Da quel giorno, il ministro ha minacciato di stracciarla più e più volte sino a diventare stucchevole in quella fessa reiterazione, che un bel giorno ha saggiamente fermato. E sia chiaro, ci sembra ancora ch’egli sia una grande risorsa. Ma come dicono al nord, è più furbo che bello. Adesso vuole intestarsi una battaglia, quella dei Giusti contro i Barbari e chiama tutti alla mobilitazione. Ottimo. Ma per essere protagonista – e come potrebbe tra i mille “vecchi” dirigenti del bosco piddino – s’è inventato la trovata di purissimo marketing che lo ha spinto sulle prime pagine: azzerare il Partito Democratico come sigla, sostanzialmente rottamandola, e mettere tutti i combattenti sotto la bandiera del «Fronte Repubblicano», che il professor Cacciari ha già cassato come un “nome ridicolo, roba da guerra civile spagnola”. Portare un nome, una sigla alta, fuori dal circuito del partito, in modo da evitare fumosissime discussioni in direzione, quello che Calenda proprio non sopporta. Gli ha risposto, in un tempo velocissimo sgamando il pericolo, il segretario Martina: va bene, va benissimo “il Fronte” ma dentro la sigla del Partito Democratico.
La querelle nasconde qualcosa di molto più sostanzioso, che sarebbe bene affrontare con molta sincerità all’interno del partito: il brand Pd ha ancora un valore, è ancora un valore aggiunto, contiene delle potenzialità, oppure è semplicemente una sigla stanca, dalla linea piatta, deprivata d’ogni fascino, e persino controproducente? Due fatti clamorosi portano in questa ultima direzione, uno dei quali, appunto, è la nuova iniziativa di Carlo Calenda. Ma c’è un precedente. Ed è un precedente di grande sostanza, riguardando esattamente l’uomo a cui Calenda guarda con rispetto e ammirazione, Paolo Gentiloni. Sempre noi rompiballe di Stati Generali fummo i primi a scoprire che nel suo “santino” elettorale, la lettera-ciclostile che si manda a tutti quelli del tuo collegio, il presidente del Consiglio aveva scientificamente eliminato ogni riferimento al Partito Democratico, che come sigla compariva per miracolo solo nel fac-simile della scheda elettorale. L’intento era chiaro, smarcarsi da un partito che per tutti gli elettori era il partito di Matteo Renzi. Il quale, nella lettera di Gentiloni, non aveva neppure l’onore di una citazione. Che dico, una citazione, una sigla. Nulla. Quella doppia “rimozione”, partito e Renzi, fu semplicemente clamorosa, eppure metteva un luce un problema serio: secondo Gentiloni e i suoi esperti di comunicazione, la vicinanza di quei due elementi avrebbe frenato e non spinto.
La questione non va elusa, piuttosto dibattuta con franchezza. È chiaro che se dovesse passare il “Fronte Repubblicano”, il Partito Democratico il giorno dopo non tornerebbe più, non avrebbe più senso. E se non torna in termini di forma, com’è una sigla, poi comincerebbe a non tornare più nemmeno come sostanza. Potrebbe essere anche una svolta, sia chiaro, potrebbe iniziare una nuova, bellissima, storia. Ma alle svolte ci si arriva non per furbizia, ma per chiarezza. Lo chieda lo stesso Calenda un confronto su questo argomento, non pretenda d’imporre il primo nome (ad minchiam, chioserebbe il professor Scoglio) senza neppure passare dal via. Perché qualcuno potrebbe anche rispondergli che nella parola “Democratico” ci sarebbero ricomprese tutte le buone cose che un partito serio immagina per sé, compreso il rispetto sacro per le istituzioni repubblicane, compreso l’argine a tutti gli sfascismi.
E poi, una domanda a Calenda e Gentiloni: come mai siamo arrivati al punto che persone serie e profonde come voi, autenticamente di sinistra, evitate come la peste ogni riferimento al Partito Democratico? La risposta l’avete data proprio voi in molte occasioni e qui se ne ribadirà semplicemente l’essenza: perché in tutti questi anni Renzi lo ha fatto diventare uno strumento di destra e adesso vi vergognate a maneggiarlo.
Ps. Resta sullo sfondo anche il dubbio che l’ingresso della parola “Repubblicano” nel lessico dei Democratici confonda un attimo le idee, visto che gli americani su questo sono più nitidi, ma qui ci affidiamo agli esperti di marketing e comunicazione aspettando risposte appropriate.
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