Partiti e politici
Il bisogno dell’«uomo della provvidenza»
Abbiamo bisogno periodicamente dell’«uomo della provvidenza»? Forse.
Ogni volta che dalle nostre parti siamo nei guai, il sentimento è che per farcela da soli, abbiamo bisogno di un papà che ci riporti a casa, ci sottragga dalle cattive compagnie e ci faccia ritrovare il profilo della nostra storia.
Inutile dire che ogni volta la metafora è quella della famiglia. O dell’ambiente caldo di casa. Differentemente della «cuccia». Insomma, il profilo è quello della consegna delle chiavi a qualcuno che si prenda cura di noi. La linea dell’«affido».
Forse anche per questo Il 19 marzo scorso il papà è tornato in auge. Forse complice una condizione di smarrimento, c’era dell’affetto in quel flusso di auguri che abbastanza platealmente richiamava la necessità di un ritorno dell’ordine.
Sarebbe facile dire che anche questo è un lungo segno dell’inversione di rotta – o forse più prosaicamente della “presa di distanza” dagli anni ’60 (forse il testo più emblematico era Verso una società senza padre che Alexander Mitscherlich, sociologo e psicologo tedesco, pubblica in Germania nel 1963; in Italia Feltrinelli lo pubblica nel 1970).
Forse è un tratto che ci riguarda, ma non senza farne un tratto di distintivo d’epoca. Un aspetto che di solito serve, per attenuare le responsabilità personali, o di gruppo, per “sciogliersi” dentro un profilo di “spirito del tempo” in cui anche le cose peggiori si attenuano.
Andiamo alla ricerca di una figura e di una funzione di tutela. Contemporaneamente aumenta la convinzione che possiamo farcela da soli, liberandoci di ciò che chiamiamo tutele, ma che in realtà spesso identifichiamo con le forme della rappresentanza.
Conseguenza di questo doppio segno è la crisi della forma partito, anche e soprattutto in quella “leggera” del partito-movimento, e il ritorno del fascino per il “partito-ordine”.
Collegato a questa opzione per l’affido, sta l’innalzamento della soglia della “diffidenza”.
La prima questione che consiste nell’andare a cercare non il “tecnico” ma l’«uomo della provvidenza» sta qui. Ovvero: individuare una figura sopra le parti come fine del sistema della rappresentanza politica perché questa non sarebbe in grado di pensare, progettare e attuare “bene comune” e “interesse collettivo”, si coniuga con la convinzione che questo rappresenti un processo di liberazione segnato dalla fine del partito politico come figura geometrica dell’organizzazione della rappresentanza degli interessi.
E tuttavia se le sfide di innovazione che riguardano noi oggi, non si limitano al quadro italiano, è anche vero che la crisi di rappresentanza degli interessi attraverso la forma partito non ha attraversato altri contesti nazionali fortemente strutturati sulle esperienze della democrazia politica dei partiti di massa (vale per la Germania, per la Francia, per la Spagna, per il Portogallo, per il Belgio, per il Regno Unito, se ci limitiamo al quadro europeo che costituisce la geografica storica della UE).
Una cosa hanno in comune quelle realtà politiche indipendentemente da dove i partiti politici si collochino (se a destra, a sinistra o al centro): aver creato nel tempo classe politica e di averla creata o essersi sforzati di costruirla come competenza politica, prima ancora che come competenza tecnica.
A monte non sta l’esaurimento della forma partito o la sua “antichità”. Le società politiche “update” non coincidono con realtà senza partito politico.
E dunque se la questione di andare a cercare l’«uomo della provvidenza» si declina come crisi del partito politico, in Italia questa dimensione non è nella crisi del partito politico come forma della rappresentanza degli interessi, ma nella convinzione che il partito politico moderno non sia la forma di tutela di ciò che consideriamo “i nostri interessi”.
La diffidenza è verso chi non è uguale a noi, chi non ha la stessa nostra storia, verso una convergenza di storie diverse che si fanno progetto comune. Verso un partito politico come progetto che mette insieme attori sociali diversi, condizioni materiali anche simili, ma fa convergere persone che naturalmente non erano destinate ad incontrarsi. Ma che s’incontrano perché pensano progetto, perché sfidano le appartenenze naturali e pensano futuro come rimescolamento delle carte e dunque come nuova aggregazione. Soprattutto perché acquisiscono che pensare futuro è possibile se si transita e ci si incontra su una piattaforma che può anche essere virtuale, ma poi deve trovare forme, modi, parole per avere anche dimensione fisica, ed essere perciò esperienza, scambio, ascolto, parole, incontro. Il partito politico moderno, quando non è una consorteria, è questo nelle società di massa degli ultimi cento anni.
Su questo punto si distingue la dimensione di pensare società organica fondata su: una cultura, una ideologia un lessico politico. Nella storia italiana questo profilo ha avuto lungo corso e precedenti significativi nell’esperienza del nazionalismo di inizio del secolo scorso: per esempio Enrico Corradini, Filippo Carli, e, soprattutto, Alfredo Rocco, il vero costruttore di quel sistema che molto sinteticamente chiamiamo regime fascista (appunto: una cultura; una ideologia; un lessico politico).
All’opposto sta una dimensione di pensare società in costruzione, per cui a ogni generazione spetta l’onere di ereditare il passato, ma anche di definire un nuovo patto, in cui per i democratici è necessario che siano inclusi quei soggetti, quelle culture che entrano e che sottoscrivono le regole di convivenza, ma che poi anche con il loro apporto quel nuovo patto acquista forma.
Diversamente è una consorteria, è una società di interesse di eguali che vogliono che i loro interessi costituiscano l’agenda di tutti.
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