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Il bavaglio di Passera: il labile confine tra pop e flop
Se l’obiettivo era guadagnare l’attenzione dei media per un giorno, lo spin doctor di Corrado Passera e della sua creatura politica, Italia Unica, può dirsi soddisfatto. Missione compiuta: lanci di agenzia, il video che rimbalza sui social, raffiche di tweet a riguardo. Diverso il bilancio se si tenta una valutazione meno istintiva e più motivata politicamente. Ho già avuto modo di sostenere in questo spazio che il cammino di un partito neonato come IU appariva indubbiamente accidentato e denso di insidie. Ne ho descritto a febbraio la nascita trionfale, nella sontuosa cornice di un hotel romano. In quell’occasione la copertura mediatica era stata in qualche modo depotenziata dalla coincidenza con un evento a dir poco epocale: la fine del lungo regno di Giorgio Napolitano e l’elezione, capolavoro politico del premier Matteo Renzi, di Sergio Mattarella come suo successore. Legittimo dunque il tentativo di IU di accreditarsi come player riconoscibile nel multiforme panorama partitico italiano, attualmente dominato dallo scontro tra i due Mattei (Salvini e Renzi) e dall’emergere di vecchi e nuovi comprimari (l’inaffondabile Cavaliere, il defilato Alfano, il tagliente Landini). Altrettanto legittima la battaglia ingaggiata da IU contro la legge elettorale costruita e sostenuta fortemente dal governo Renzi, il cosiddetto Italicum. Opposizione, come ho evidenziato in un precedente post, non scevra da sospetti di opportunismo. Un partito “che si candida a governare il paese” (così Passera durante la convention fondativa in gennaio) dovrebbe accogliere positivamente il superamento di un anacronistico bicameralismo perfetto che dà luogo a processi decisionali imperfetti. Un partito “che vuole diventare il primo partito del paese” (sempre Passera) non potrebbe che sostenere una legge elettorale che, conferendo un premio di maggioranza e scoraggiando il ripetersi di coalizioni rabberciate sul modello dell’Unione prodiana, delinea un sistema in cui chi vince governa per cinque anni. Inoltre la moderata soglia del 3% non impedirebbe (vedi l’Ncd di Alfano) di sopravvivere politicamente nonostante la piccola taglia. La strenua lotta ingaggiata dal partito di Passera, ferme restando queste premesse, non può essere comunque stigmatizzata o ritenuta velleitaria: con Italia Unica si è schierato un movimento di opinione trasversale che pesca dal variegato bacino della politica e dal mondo della cultura, nonché un buon numero di autorevoli esponenti della minoranza interna al partito di maggioranza relativa. Non è dunque la scelta di campo a suscitare qualche perplessità, ma la decisione (assai rischiosa) di configurare un partitino dai consensi esigui e dall’identità ancora vaga esclusivamente come oppositore delle riforme costituzionali del Rottamatore. Ieri è giunta la conferma che tale osservazione andava nella direzione giusta.
Vedere colui che è stato banchiere di successo, uomo McKinsey e ministro montiano sfilare comicamente imbavagliato di fronte a Montecitorio non è stato un bello spettacolo. Parliamo in questa sede di comunicazione politica, non di legittimità. Sacrosanta la battaglia, discutibile la strategia. Ne hanno parlato in tanti in queste ore, così come sono fioriti tweet dall’ironia tagliente. Non è necessario che Passera si senta obbligato a perpetuare all’infinito la propria immagine manageriale, né che debba rinunciare a qualunque scintilla di spontaneità per non appannare il proprio invidiabile aplomb istituzionale. Il naufragio di Monti e l’ascesa dei due Mattei sono la dimostrazione plastica di quanto si sia imposto un nuovo registro di comunicazione dirompente e spregiudicata, poco avezza a formalismi e tecnicismi. Lo stesso Palazzo Chigi è divenuto nel giro di un anno una fucina di hashtag accattivanti e affascinanti foto pseudo-istituzionali da caricare su Instagram. Niente a che vedere con la sobrietà monacale delle conferenze stampa del Professore, quando le lacrime di un ministro divennero oggetto di un freddo ammonimento da parte del premier. Sarebbe dunque suicida limitarsi a contestare punto su punto la riforma elettorale, disquisendo nei talk-show o nei comizi di soglie di sbarramento o premi di maggioranza. Recenti sondaggi confermano il sostanziale disinteresse e la prevedibile incomprensione di larga parte dei cittadini per tali tematiche. Questo però non dovrebbe fornire lo spunto per iniziative involontariamente comiche come il canto dell’inno di Mameli muniti di bavaglio. Soprassediamo sul tragico hashtag #leggecerotto, che tutto comunica tranne una strenua opposizione ad una legge elettorale con premio di maggioranza. Distogliamo lo sguardo dall’incolpevole figurante costretto ad impersonare un direttore d’orchestra con ridicole movenze operistiche. Abbassiamo gli occhi di fronte al longilineo Passera costretto ad indossare T-shirt e bavaglio. E’ però evidente che organizzando tali iniziative si presta il fianco a banalizzazioni e prese in giro, come quelle che si sono succedute nelle ore seguenti: chi ha irriso il manipolo di sostenitori/comparse accorse con il leader (insinuando che potessero essere la totalità degli elettori), chi ha lamentato una sgradita caduta di stile da parte di un riconosciuto professionista. Il principio “purché si parli di noi” non sempre è foriero di successi futuri.
Ieri sera Passera era presente nel salotto televisivo di Corrado Formigli, PiazzaPulita. Smessi i panni del contestatore (con l’unica eccezione di un vistoso spillone anti-Italicum), l’ex ministro si è speso in bordate contro le politiche economiche del governo, snocciolando cifre e fornendo una narrazione alternativa a quella del rappresentante in studio del Pd, Andrea Romano. All’ignaro spettatore le due scene avrebbero potuto apparire quasi paradossali: da un lato il sessantenne barricadero, dall’altro il tecnico competente e non allineato. Perché non continuare a puntare sull’expertise e sulla solidità delle competenze? Perché ostinarsi ad avversare le riforme renziane con modalità che sconfinano irrimediabilmente nella farsa? Sfidare i rappresentanti del governo sull’arido terreno dei numeri non darà certo luogo ad impennate di menzioni sui social media, ma potrebbe gettare le basi di un’opposizione misurata e stringente, aliena da facili accuse di irresponsabile populismo. Agli spin-doctor di Passera la responsabilità della scelta, purché nel goffo tentativo di trasformarlo in icona pop non lo condannino ad un inevitabile flop.
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