Partiti e politici

Il baratto di Renzi, governabilità al posto dei valori, è un male?

3 Ottobre 2015

Si chiama «credito residuo» e, come per i telefonini, identifica ciò che ci resta da spendere in politica, in termini di valori, onestà, principi, credibilità eccetera, eccetera. Nel caso del Partito Democratico, per esempio, spiega perfettamente perché Ignazio Marino sia incredibilmente ancora in sella dopo plurimi rovesci, e nonostante un certo tipo di stampa abbia deciso scientificamente di gonfiare le situazioni ben oltre la loro reale portata. Il sindaco resta lì, stralunato ma determinato, non tanto per una sua personalissima attitudine alla battaglia che lo renderebbe eroico, ma semplicemente perché il credito residuo dei valori fondativi della sinistra è, nonostante tutto, ancora sul segno positivo. Siamo disposti, cioè, a portare sempre un metro più in là del sopportabile le situazioni che ci apparirebbero totalmente compromesse, e questo in virtù di quel tesoretto di cui sopra al quale, evidentemente, attribuiamo un valore taumaturgico. Far cadere il sindaco di Roma significherebbe certificare una sconfitta molto pesante e a sinistra, in virtù di quel retaggio culturale che ha portato una certa sinistra storica a considerarsi “migliore” e moralmente più virtuosa, si tenderebbe ancora a non mischiarsi o equipararsi alla massa politica.

Per fortuna, e qui lo scriviamo senza ironia, Matteo Renzi sembra volere barattare quella supremazia morale comunista, frutto di una perversione politico-antropologica di un tempo lontano, con qualcosa di più concreto e cioè il governare (bene) a sinistra senza più valori fondanti che ne hanno distorto la percezione e la considerazione di sé. In cui racchiudere finalmente l’onestà nel recinto più moderno e consapevole delle pre-condizioni politiche, senza che nessuno possa sventolarla come bandiera esclusiva e quasi discriminatoria.

Del resto, che una rottura con i valori fondativi della sinistra sia in atto è del tutto visibile nel procedere del segretario del Partito Democratico, che rompe certi schemi, certe liturgie, va totalmente da un’altra parte rispetto al vecchio partito, e che soprattutto introduce l’elemento della «disinvoltura» nel suo modo di far politica. Da cui un primo Patto del Nazareno, in seguito rotto unilateralmente da Berlusconi, un qualcosa di meno glorioso ma di molto concreto come l’alleanza (di governo) con Alfano, e infine il ritorno a casa (erano amici toscani) di Verdini come ulteriore valvola di sicurezza. Tre esempi, e altri se ne potrebbero fare, di una disinvoltura che assurge a elemento politico non più trascurabile e causale, ma quasi strutturato.

Un baratto consapevole, dunque. Abbandonare il passato, e quella dote di storie, passioni, valori, ma anche di moltissime distorsioni, tra cui appunto la maledizione di considerarsi «migliori», per una nuova riconoscibilità sociale per nulla fondata su valori e principi e proprio per questo aperta a settori della società fino a quel momento preclusi. (La ricerca di voti e volti nuovi).

Per dimostrare in modo assolutamente scientifico questo cambiamento, in un certo senso epocale, si possono mettere a confronto due persone opposte come Rossana Rossanda e Matteo Renzi. La fondatrice storica del Manifesto è stata chiamata in causa qualche giorno fa in occasione della morte di Ingrao e come ultima domanda, Giovanna Casadio di Repubblica le pone l’inevitabile quesito: «Cosa vuol dire oggi essere di sinistra?» Possiamo immagine i sospiri parigini di Rossanda, da cui questa risposta: «Ma cos’è la sinistra? La bussola dell’uguaglianza non c’è quasi nessuno che ce l’abbia. Non c’è più una differenza tra una posizione di centrodestra e una di centrosinistra. Renzi ne è un esempio folgorante».

A distanza di poche ore, Claudio Tito, serissimo caporedattore politico sempre di Repubblica, pone stavolta a Matteo Renzi l’angoscioso quesito: «Se lei dovesse definire in una parola la sinistra, quale utilizzerebbe?» “Una parola è troppa e due sono poche!”, avrebbe detto nonno Libero di un “Medico in famiglia» e dunque Renzi se ne prende qualcuna in più: «Per me – dice – la sinistra è giustizia, ma non giustizialismo. È libertà, ma non liberismo. È uguaglianza, ma non egualitarismo».

Si può notare come il presidente del Consiglio, nel declinare la sua idea di sinistra, sia totalmente a-sentimentale. Non dà immagini, non evoca passioni, non costruisce iperboli, non parla di popolo, piuttosto registra e mette in parallelo. È un fatto che qualcuno potrà valutare come inquietante, altri ne daranno un valore positivo rispetto alla ridondanza di un tempo, ma questo è. Sottolinea un distacco, rompe con le tradizioni, al punto che su tre concetti-parola uno è “giustizialismo” molto caro agli anziani del gruppo. La passione è sparita, le storie seppellite, al punto che più avanti nell’intervista sottolinea che «il Pd di oggi è in mano a una generazione di nativi democratici. Che si definiscono più per la direzione nella quale vogliono andare che non per la loro provenienza».
“Nativi democratici”, dice Renzi. Sostanzialmente quelli nati con lui. È una autocertificazione forse terribile, crudele, ma segna la fine di una storia. Ora tocca a tutti quelli che quella storia l’hanno vissuta decidere che strada intraprendere.

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