Partiti e politici
I veri numeri delle regionali
Non è certo la prima volta: grandi polemiche sui numeri, e non soltanto sulle interpretazioni, delle ultime (ridotte) regionali. Ciò che potrebbe sembrare, a prima vista, il dato più oggettivo possibile si trasforma nei commenti in una materia del tutto opinabile. Come può accadere tutto ciò? Dipende, come sempre, dal punto di vista, dai confronti che vengono effettuati, dalla scelta di una delle tante passate consultazioni elettorali con cui paragonare i risultati odierni. E’ cosa nota. Da sempre tutte le forze politiche lo fanno, ed i commentatori più o meno di parte si uniscono a questo simpatico andazzo. A volte, si confrontano addirittura i consensi con le mere aspettative veicolate dai sondaggi. Per cui Berlusconi nel 2006, nonostante avesse visto il suo distacco dal centro-sinistra diminuire di ben 8 punti percentuali dal 2001, fino ad azzerarsi, si dichiarò il vero vincitore virtuale, perché i sondaggi degli ultimi mesi lo davano nettamente sconfitto. Se non basta dunque una perdita dell’8% dei consensi per ammettere una sconfitta, figuriamoci con arretramenti meno consistenti di quello…
L’ultima “interpretazione” dei numeri che ho letto rimetteva perfino in discussione il forte progresso della Lega, andando a confrontarla con il suo risultato del 2010. Allora aveva ottenuto oltre 1 milione di consensi (pari al 9,9%), mentre oggi sarebbe precipitata a soltanto 800mila voti (pari al 9,6%). Tutto vero, sia chiaro. Nessuno (o quasi) inventa nulla, interpreta soltanto. Ma l’autore in questo caso, nella smania di fornire i suoi totali dei voti, si è dimenticato di sottolineare come, in realtà, il partito di Salvini sia avanzato nettamente in tutte le regioni al voto, arretrando soltanto in Veneto. Ohibò, proprio nel suo Veneto. E perché? Per la semplice ragione che, per attirare voti anche non leghisti, si è presentata alle urne con un’offerta inedita, la “lista Zaia”, che ha ottenuto la bellezza di quasi 450mila voti, una parte (anche consistente) dei quali erano ovviamente leghisti che hanno preferito questa scelta a quella del proprio partito. Ma che nel “computo” partitico sono scomparsi; come è peraltro corretto dal punto di vista notarile, ma non certo da quello politico.
E’ questo l’ultimo esempio delle diverse letture che sono state effettuate nelle analisi del giorno. Ricapitoliamo. Qualcuno ha confrontato i risultati con le ultime europee, altri con le politiche, altri ancora con le omologhe regionali di 5 anni fa; qualcuno ha poi aggregato le cosiddette “liste del Presidente” con il maggiore dei partiti della coalizione che lo appoggiava, altri con il partito di appartenenza del candidato alla presidenza, altri ancora hanno confrontato le “aree politiche”, anziché i partiti, con i precedenti risultati (europee, politiche o regionali). Infine, alcuni hanno analizzato i risultati a partire dal numero dei voti validi, altri a partire dalle percentuali di voto. Per non parlare inoltre dei partiti che a volte si sono presentati aggregati, e a volte singolarmente. E, buon ultimo, il calcolo del numero delle regioni conquistate, con l’opportuno confronto con la situazione precedente. Ho calcolato che, tenuto conto di tutti questi fattori, si possono effettuare almeno 20 tipi di confronto. E volete che, con la ingente messe di comparazioni a disposizione, non se ne trovi almeno 1 che dia soddisfazione ad una delle parti politiche in causa? Basterebbe che un’equipe di esperti, il giorno dopo la consultazione, fornisse i risultati completi di tutte le possibili comparazioni. In questo modo, ognuno potrebbe scegliere comodamente quella che più gli piace e che gli rende onore, facendolo sembrare il vero vincitore della tornata elettorale. Un bel risparmio per tutti.
Ma oltre i calcoli più o meno opportunistici, cosa ci hanno detto davvero queste elezioni? Tre segnali importanti, ed una considerazione.
1. L’appeal del Pd di Renzi è chiaramente in calo. Con tutti i distinguo che si possono fare, resta indubbio che la ventata di novità, la svolta impressa dal premier nel suo primo anno di governo non ottiene più, oggi, quel seguito che aveva almeno fino allo scorso autunno. Il rinnovato Pd che alle europee pareva essere una efficace macchina di consenso, ben visto da numerosi settori dell’elettorato, oggi pare già un pochino invecchiato. Ce lo dicevano già i sondaggi, negli ultimi mesi, ed il trend viene confermato dalle urne. Non una sconfitta apocalittica, ma un segnale che qualcosa non funziona più, o nella comunicazione, o nel progetto che si intende portare avanti. O in entrambe le cose.
2. La Lega di Salvini è diventata maggiorenne. Da sempre alleato minore di Forza Italia e di An, oggi il partito nordista tenta la conquista dell’intero territorio nazionale, probabilmente cambiando anche l’appellativo di nordista, proponendosi in prima persona come leader della coalizione di centro-destra. Ma non potrà mai riuscire a vincere future elezioni politiche, se l’Italicum va in porto, a meno di inglobare tutti gli elettori di quell’area politica. La cosa però è parecchio complicata, perché il messaggio di Salvini è troppo limitato alla parte più radicale del centro-destra, e ancora troppo poco “meridionale”. Resterà quindi un forte partito di opposizione.
3. Il Movimento 5 stelle cresce, e diventa competitivo. Man mano che Grillo lascia la scena, i pentastellati riescono a ricevere consensi diffusi anche a livello locale, anche senza la sua presenza a far da battistrada. Segno di un radicamento che, nel giro di un paio d’anni, se accompagnato da un ulteriore sviluppo delle risorse e delle capacità del personale del movimento, potrebbe effettivamente contendere la supremazia nazionale – almeno al ballottaggio – al Pd di Renzi.
4. Nelle elezioni regionali si vota prima di tutto per il Presidente, com’è noto ma troppo spesso dimenticato: offerta, obiettivi e strategie sono radicalmente differenti dalle consultazioni nazionali. Lo scopo finale è la conquista del territorio, e si cerca di farlo con ogni mezzo. Dunque, se serve a questo scopo, si mettono in campo anche una o più liste personali, legate al candidato presidente, sapendo che i consensi per qualche partito saranno più limitati. Ciò che importa, in questo caso, non sono i voti per i partiti, ma per il possibile governatore. Non ha molto senso, in sede di analisi successiva, computare i voti per i partiti “come se” fossero quelli che contano realmente. Tanto è vero che (come pochi hanno sottolineato) soprattutto nel centro-nord, una quota tra il 10 ed il 20% di elettori votano solo per il candidato, e non per un partito. Tutti i calcoli di cui prima abbiamo parlato, dunque, non possono essere effettuati, perché non riguardano le vere scelte degli elettori. Semplice.
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