Partiti e politici

I sentimenti servono alla politica per ritrovare sé stessa

15 Novembre 2019

Ogni mattina un politico si alza e sa che dovrà essere molto più bravo degli altri ad intercettare e indirizzare le emozioni che serpeggiano nel Paese. Da tempo infatti il dibattito pubblico italiano – sia nelle sedi istituzionali che a mezzo stampa – è governato dalla logica delle emozioni: ciò che commuove, che fa arrabbiare, che provoca risentimento, paura, pietà muove il timone dell’opinione pubblica. La soglia media di attenzione, secondo alcuni studi, è scesa negli ultimi anni da 12 a 8 secondi e questo rende molto difficile sviluppare un ragionamento politico di tipo tradizionale, ovvero basato sul processo di analisi, sintesi e proposta. Tempi troppo stretto rendono necessario il ricorso ad altri strumenti di risveglio dell’attenzione, che facciano leva su qualcosa di più immediato rispetto al ragionamento deduttivo o induttivo. L’urgenza di espressione e testimonianza, l’esigenza di continui stimoli, impediscono di fatto quell’approfondimento tematico fondamentale per trovare risposte ai quesiti complessi imposti da una società in continua evoluzione e porta, di necessità, al ricorso ad altre strategie di coinvolgimento: quelle legate alle emozioni. Tutti i giorni orientiamo le nostre scelte sulla base di un sentire momentaneo al quale fanno appello indistintamente organi d’informazione, industria pubblicitaria e classe politica: non riflettiamo, reagiamo.

Il costante incentivo alle nostre emozioni viene fornito da un rinforzo positivo dato da messaggi che mettono al centro del nostro micro-mondo ciò che sentiamo: “perché voi valete”; che poi il mercato e la governance dimostrino quotidianamente il contrario è un altro discorso. Cala la fiducia nelle istituzioni, incapaci di dialogare con le persone attraverso un linguaggio che non gli compete, sale quella nei confronti delle guide spirituali. In questo quadro, coloro che si interrogano su possibili modalità di recupero della partecipazione alla Cosa Pubblica spesso fanno appello ad un ritorno alla ragione, all’analisi critica, allo studio: la mente contro la pancia insomma, dimenticando che, nel mezzo, si trova il cuore. Le emozioni infatti sono l’aspetto più immediato e irriflesso della nostra emotività (che, ormai in modo indiscusso, fa parte del nostro patrimonio cognitivo e come tale va esercitata), ma sono necessarie per metterci in relazione con il mondo che ci circonda, primo passo verso l’agire politico. Chi non prova emozioni non può fare davvero politica, perché non può mettere il suo io in relazione a quello della comunità nella quale è inserito. Le emozioni però sono il grado zero della comprensione emotiva del mondo: la loro evoluzione, mediata da un’elaborazione cosciente e – in questo – razionale, sono i sentimenti, che necessitano di consapevolezza per essere riconosciuti e utilizzati socialmente. Il processo comporta un certo sforzo cognitivo e soprattutto un addestramento al quale, negli ultimi anni, non siamo stati di frequente sottoposti.

Eppure, per potersi relazionare con la comunità, si rende necessaria da una parte un’immedesimazione, dall’altra il trasferimento delle nostre esperienze individuali sugli altri. La paura dello straniero, ad esempio, aumenta quanto più una persona non è stata messa nelle condizioni di confrontarsi con l’altro da sé, con il diverso e, di conseguenza, non possiede gli strumenti per riconoscere, in ciò che all’apparenza appare così distante, sé stesso, le proprie emozioni, i propri sentimenti. Pretendere, in un contesto disabituato al confronto, di sanare la diffidenza attraverso un percorso cognitivo di tipo razionale è velleitario. Richiede troppo tempo e uno sforzo che, neppure sui banchi di scuola, è possibile imporre ai singoli individui abituati, in un’ottica capitalista, a ragionare in base al proprio utile. Un lavoro sulle emozioni, invece, essendo innate e immediate, è possibile anche nel breve periodo, ma implica un impegno di educazione sentimentale al quale, da tempo, abbiamo abdicato, riducendo il concetto stesso di sentimentale alle commedie romantiche hollywoodiane e alle citazioni da cioccolatino.

I sentimenti invece sono una cosa seria e maturano, proprio come lo spirito critico e la capacità di discernimento, a seconda degli stimoli e indirizzi che riceviamo. Trasformare l’euforia in felicità implica un percorso cognitivo, così come differenziare in pietà, solidarietà, compassione una generica emozione di tristezza alla vista della sofferenza implica una consapevolezza personale e  relazionale assolutamente non immediata. Per questo un serio lavoro di recupero dei sentimenti utili alla politica può essere il viatico di quel ritorno del senso di comunità che in tanti stanno cercando di realizzare. Partiamo dalla paura, un sentimento misconosciuto, utilizzato – nelle sue accezioni più marcatamente emotive – per stimolare diffidenza, ostilità, chiusura nelle persone. La paura è da sempre il motore di tutte le guerre ma, al contempo, anche il collante (fittizio) di molte comunità: il metus hostilis (paura del nemico) era utilizzato già nell’antica Roma come escamotage per mantenere nell’Urbe lo status quo sociale ed evitare rivendicazioni di classe e possibili ribellioni. La paura però è anche un sentimento utile per riconoscere il limite: ciò che ci spaventa può indicarci una strada da percorrere verso il miglioramento – personale o sociale – oppure uno spazio inviolabile. La differenza può manifestarsi però solo attraverso la consapevolezza e il passaggio della paura da emozione a sentimento. Allo stesso modo la felicità, intesa come ebrezza momentanea o soddisfacimento di un bisogno (reale o indotto), è qualcosa di effimero, rispetto al quale politicamente risulta possibile spostare sempre più in là – altre promesse, altre campagne elettorali – la realizzazione di un desiderio. La ricerca della felicità, citata nell’incipit della Costituzione americana, è qualcosa di profondamente diverso, che ha a che fare non con le emozioni, ma con i sentimenti ed è, per questo, duratura. La ricerca della felicità sociale, della comunità e quindi, in relazione, dell’individuo, dovrebbe essere uno dei primi impegni della politica. Lavorare sulla felicità implica un accrescimento del benessere mentre, viceversa, lavorare esclusivamente sull’innalzamento delle condizioni materiali di benessere non implica necessariamente un aumento della felicità. Il Pil non è indice dello stato di salute emotiva di un paese e la felicità si può costruire solo in relazione ad un contesto dal quale, la società di consumo, sembra invece volerci tenere ben lontani.

Questo porta ad una riflessione su un altro dei sentimenti fondamentali per chi si occupa di politica: la solitudine. Da tempo i più attenti esperti di welfare hanno denunciato il crescente peso sociale della solitudine (anche per le casse dello Stato in termini di spesa pubblica per la salute), ma l’errore di continuare a considerare questo sentimento come semplice emozione porta a ridurlo a qualcosa di attinente alla sola sfera privata: un problema individuale, che individualmente va risolto. La solitudine invece è un sentimento politico, termometro dello stato di salute di una comunità che, se viva e coesa, è in grado di mantenersi e accrescersi nel supporto reciproco e attraverso percorsi e regole condivise. In solitudine questo non è possibile e, infatti, molti dei bisogni indotti dai quali oggi siamo socialmente dipendenti, vivono di questa esigenza frustrata di comunità, di appartenenza.

Amore e fiducia chiudono il quadro: l’amore, ridotto da un approccio consumistico a bisogno di appagamento di desideri individuali, rischia di perdere il suo valore politico, rivoluzionario e generativo di altri scenari. In qualità di emozione porta ad un ripiegamento individualistico su noi stessi, in qualità di sentimento ci porta fuori, implica un coinvolgimento in qualcosa di altro rispetto alla semplice giustapposizione di due mondi. Il sentimento d’amore ha bisogno di tempo, di spazio e di cura: sottrae dalle dinamiche urgenti di una società accelerata, riporta ad un piano di approfondimento. In ultimo la fiducia: il sentimento che sembra mancare nei confronti della classe politica e di gran parte delle istituzioni. Si tratta di un sentimento complesso, che difficilmente può essere confuso con le emozioni ad esso correlate. Simpatia, sintonia, vicinanza non sono sinonimi di fiducia: la fiducia vive di costruzione emotiva e razionale, rappresenta forse il punto più alto di contatto fra questi due mondi. Per ottenerla occorre un percorso di reciproca conoscenza, ma soprattutto di verità. Forse per questo, in un contesto artefatto come quello della narrazione contemporanea, risulta tanto difficile da conseguire.

Un percorso politico che ambisca alla ricostruzione della fiducia, del legame con i cittadini, deve essere quindi prima di tutto sincero. Non trasparente, onesto, ma sincero, capace di creare ponti fra chi governa e chi delega al governo della cosa pubblica. Tutto questo non si può ottenere con un selfie fintamente normale e neppure con una narrazione forzatamente nazional popolare. Non si può ottenere avendo paura di utilizzare il termine sentimento, legandolo, in una visione maschilista e retrograda, a un universo di frivolezze (e debolezze) femminili. Bisogna essere e non apparire, dimostrare una coerenza con le proprie idee ma, in primis, con i propri sentimenti. Questo implica  un recupero del dato sentimentale da parte della politica e l’abbandono del ricorso costante alle emozioni immediate, ma anche un’educazione sentimentale del Paese, che renda le persone in grado di riconoscere i propri sentimenti ricavandone qualcosa di costruttivo per sé  e per la propria  comunità. Superando l’individualismo emotivo, in una ricostruzione di sentimento collettivo nel quale sia possibile riconoscersi mirando ad elaborare un comune piano valoriale condiviso.

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