Partiti e politici
I pozzi avvelenati della democrazia borghese
Giuseppe Alberto Falci e Jacopo Tondelli ripercorrono gli anni tra Monti e il dopo Draghi, “un decennio vissuto pericolosamente tra populismo e tecnocrazia”, come un giallo da cui emergono prove a carico e nomi degli “avvelenatori della democrazia italiana”. Ma populismo e tecnocrazia sono una degenerazione della democrazia o la forma che essa assume in una fase di crisi e di lacerazioni delle classi dominanti?
Dopo la democrazia (Zolfo, 2022, 240 pp., 17,50) è un saggio che racconta, selezionandone i passaggi più significativi, la crisi del sistema politico italiano da Monti alla recente vittoria elettorale del centrodestra. I due autori hanno un’impostazione politico-culturale diversa dalla mia, ma ho trovato il libro interessante e di utile lettura. Mi capita in generale quando leggo gli editoriali di Jacopo Tondelli su Gli Stati Generali e mi rallegro pensando che la politica possa essere almeno in qualche misura una scienza, cioè che in base alla propria visione del mondo si possano trarre conseguenze differenti dagli stessi fatti, ma che i fatti sono fatti e da quelli necessariamente bisogna partire.
Nei sei capitoli in cui si snoda il racconto di Falci e Tondelli ci troviamo di fronte a un impietoso ritratto della democrazia italiana di questi anni: da marxista impenitente mi azzarderei a dire della “democrazia borghese”. Del resto il libro conferma che chi in questa storia non ha alcun ruolo, se non di semplice comparsa, sono le persone comuni, i lavoratori, chi produce la ricchezza che la sgangherata classe dirigente dipinta dai due autori amministra a beneficio di una compagine sociale tesa a difendere a qualunque costo le proprie rendite di posizione. Personaggi che di tanto in tanto si affacciano discretamente dalle pagine del volume: il grande vecchio della finanza cattolica lombarda che, insieme al leader di Assolombarda, sponsorizza la premiership di Draghi, oppure la figlia dell’imprenditore arrestato per bancarotta, deputata di Forza Italia sulla cui fedeltà al capo peserebbero secondo alcuni le “benevolenze” della ministra Gelmini nei confronti dell’azienda paterna. Del resto in Germania Der Spiegel ha aperto il 2023 con una copertina in cui si chiede “Ma allora Marx aveva ragione?”, una stranezza che tuttavia si ripete a ogni scossone del capitalismo globale.
Per impietosa ricostruzione intendo un racconto che evita di nascondersi dietro la reiterata evocazione del fascismo dietro l’angolo tipico della vulgata giornalistica “de sinistra”, ha il coraggio di demistificare la sagra dell’ipocrisia di un anno fa attorno alla ricandidatura di Mattarella (incluse le immagini del trasloco dal Quirinale effettuato da un camion in realtà semivuoto), ammette la piaggeria della stampa nei confronti del salvatore della Patria di turno. E denuncia la stessa piaggeria da parte della politica, condensata nella frase con cui Tabacci annuncia la capitolazione della politica alla tecnocrazia: “A Draghi abbiamo detto che non abbiamo condizioni da porre, sembreremmo ridicoli.”
Su questo però, a mio modo di vedere, si aprono alcuni interrogativi. Tecnocrazia e classe politica sono davvero forze socialmente eterogenee o più semplicemente il bastone e la carota agitati dalla stessa classe sociale per rispondere a scenari diversi e tutelare i propri sempiterni interessi? E siamo proprio sicuri che l’ascesa dei tecnocrati e dei “populisti” per effetto del distacco dei partiti dalla società reale rappresenti “un avvelenamento della democrazia italiana”, un delitto di cui si hanno le prove e si conoscono i colpevoli, cioè “Le classi dirigenti politiche, il sistema dei partiti, da un lato, e gli italiani che hanno continuato a votarli, dall’altro”?
Gli italiani, in realtà, quelle classi politiche e quei partiti già dalla fine degli anni Settanta li votano sempre meno e, come osservava pochi mesi fa Riccardo Cesari su LaVoce.info (vedi il grafico qui sotto), sono le condizioni materiali e sociali della popolazione a guidare il voto e a determinare la crescita costante dell’astensione. Se suddividiamo gli italiani in classi sociali vedremo che sono in particolare i proletari a sottarsi alle urne per la semplice ragione che tanto più per loro chiunque vinca e governi la direzione di marcia non cambia. Draghi dixit: “Tanto c’è il pilota automatico”. Del resto se, come ci raccontano i due giornalisti, le auree regole della democrazia – il governo scelto dal popolo oppure il Presidente della Repubblica per un solo mandato – quando il gioco si fa duro si rivelano semplici optional, mentre le bronzee leggi dell’economia, soprattutto quando c’è da imporre “sacrifici” a chi lavora, sono sacre, allora non c’è da stupirsi che la presa della nostra democrazia sulla società, in particolare su chi sta più in basso, si allenti.
Qui allora entra in gioco un altro interrogativo, cioè se la piega presa dagli eventi rappresenti una deviazione dal sentiero della democrazia o semplicemente il modo in cui la democrazia si adatta ai mutamenti di scenario generali per tutelare gli stessi interessi. In altre parole se il “decennio vissuto pericolosamente tra populismo e tecnocrazia”, per usare le parole degli autori, abbia deturpato il volto della democrazia italiana o, al contrario, ne stia semplicemente rivelando a milioni di italiani una faccia ignota o più semplicemente dimenticata nell’ubriacatura neoliberale post 1989.
Alla fine del volume gli autori scrivono che “Quello che succede tra i velluti di Montecitorio o di Palazzo Chigi è una rappresentazione per qualcuno barocca, per altri suggestiva e affascinante, per molti stomachevole, che non dovrebbe mai perdere di vista un principio di fondo: là dentro ci sono i rappresentanti, appunto, e fuori vivono, soffrono, lavorano, ridono e si disperano, i rappresentati.” Un’affermazione tanto vera quanto è vero che chi (la stragrande maggioranza) prima di questo decennio lavorava, soffriva e si disperava, oggi ha ancor più ragioni per soffrire e disperarsi, mentre quei pochi che allora ridevano ora ridono più di prima. Al di sotto del processo degenerativo che investe la politica la continuità, da questo punto di vista, è davvero sorprendente e il vero responsabile, in questo senso, è la stessa democrazia fondata sull’uguaglianza giuridica e allo stesso tempo sulla diseguaglianza sociale. Se la democrazia borghese entra in crisi è, forse, perché di fronte alla crisi del capitalismo globale, a quella ancor più profonda del capitalismo italiano e alle lacerazioni che essa apre all’interno delle classi dominanti, l’unico modo che queste ultime hanno per difendere le proprie rendite di posizione è ampliare le diseguaglianze e ridurre gli spazi della democrazia formale quanto serve per provare a gestirne l’impatto sociale. In questa crisi a me pare che per chi lavora, insieme a tante insidie, si celi anche qualche opportunità.
Articolo pubblicato sulla newsletter di PuntoCritico.info del 17 gennaio 2023.
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