Partiti e politici
I capi nell’era dei partiti personali: non chiamiamoli leader, sono avventurieri
Scrivono in tanti oggi di partiti personali. Le scelte palesemente verticistiche dei candidati alle prossime elezioni legislative, accompagnate dalla marginalizzazione – per usare un eufemismo – delle minoranze ha reso la chiave di lettura del partito personale una chiave passepartout. Ma cosa sono i partiti personali? E che tratti hanno, oggi, in Italia, ma forse non solo, i loro leader?
Un partito personale è un partito che nasce per sostenere la carriera politica del proprio leader; il caso di Macron e En Marche! è, da questo punto di vista, da manuale. Forza Italia fu creata dal suo leader come partito personale e, nonostante i tanti anni passati, nonostante i tentativi di consolidamento (non da parte del leader), nonostante lo sviluppo di un micronotabilato sul territorio, sostanzialmente tale è rimasta.
Oggi l’attenzione è rivolta in particolare al Partito democratico e alla Lega, non a caso sempre definita “di Salvini”. In entrambi gli esempi siamo di fronte ad un fenomeno particolare. Possiamo probabilmente definire i due partiti come partiti che si avvicinano al modello di partito personale, ovvero un partito dove le decisioni chiave – dalle candidature ai programmi, dalle carriere alle scelte di governo se il partito controlla l’esecutivo – sono assunte personalmente dal leader, la cui carriera politica, come si diceva, costituisce la mission principale del partito medesimo. Tuttavia, in nessuno dei due casi il processo è stato avviato da una creazione dell’organizzazione come organizzazione personale; esso, piuttosto, è scaturito dalla conquista di un partito da parte di leader che ne hanno fatto progressivamente una realtà sempre più personalizzata, per giungere poi ad avvicinarsi al partito personale vero e proprio.
Sappiamo bene come questi fenomeni siano il frutto, nell’età contemporanea, della crisi delle forme partito più tradizionali, a loro volta legate a rivolgimenti sociali, economici e tecnologici in atto da tempo. Nel caso recente italiano sappiamo anche come le leadership di Renzi e Salvini abbiano potuto profittare della più specifiche crisi dei rispettivi partiti. Le crisi offrono sempre finestre di opportunità. Entrambi hanno saputo offrirsi come una alternativa a delle leadership in difficoltà, grazie anche ad un appello a largo raggio e a messaggi di cambiamento. Salvini ha portato la Lega a triplicare il proprio consenso, assumendo i tratti di un partito di estrema destra e perdendo la sua originaria ragion d’essere di partito autonomista. Renzi ha conosciuto un iniziale successo elettorale (il 40% delle europee del 2014) costruendo la propria ascesa con espliciti messaggi di rottura con il passato, di richiami “anticasta”, di trasformazione del volto della sinistra.
Bene. Detto tutto questo, però, varrebbe la pena soffermarsi sui profili di questi personaggi. Per comprendere che direzione possono prendere questi partiti personali. Coraggiosi, senza molti scrupoli, capaci di parlare ad un grande pubblico, questi leader hanno caratteristiche molto diffuse tra i loro “omologhi”. Ma hanno anche una caratteristica particolare, che attribuisce loro uno stile preciso. Hanno saputo entrambi fiutare il vento, annusare gli umori popolari e – in modi diversi – hanno fornito al loro ‘pubblico’ ricette semplici unite a capri espiatori. In questo appaiono entrambi ‘pragmatici’ e ‘opportunisti’, anche se nel caso di Salvini l’ancoraggio a certi temi – l’ostilità all’Europa, la questione dell’immigrazione – tende a fornire una connotazione ‘ideologica,’ o apparentemente ideologica, più forte. Ma i due sono anche accomunati dal fatto che ciò che più contraddistingue il loro curriculum è essenzialmente il coraggio della sfida. Nessuno dei due si può dire si sia distinto per altre particolari capacità, se non conquistare il potere e gestirlo in modo da mantenerlo. Intellettualmente, pur nella loro diversità, nessuno dei due ha mostrato particolari doti e, al tempo stesso, nessuno dei due ha mai proposto qualcosa che potesse assomigliare ad una visione della politica e della società. Entrambi si sono costruiti una carriera muovendosi con abilità tra gli umori degli elettori e così facendo si sono costruiti un “posto di lavoro”, un posto non male, tutto sommato. A questo punto, a questa ricostruzione potremmo aggiungere Luidi di Maio, capo politico del M5S. Ho tenuto fuori il M5S dalla riflessione per la complessità del caso: non si può individuare un vero capo, ma un ristretto gruppo che opera attraverso dinamiche opache. Tuttavia, rispetto alle ultime riflessioni sul profilo dei leader, Di Maio rientra pienamente nel modello del giovane di tante ambizioni, e scarso background, che trova nel gioco politico lo spazio per realizzarle.
Cosa significa tutto ciò? Significa che da questi leader non possiamo attenderci altro che mosse orientate al loro successo personale. Il caso del Pd è, a questo proposito, illuminante. Se il PDR (partito di Renzi) aveva a lungo costituito una suggestione (di Ilvo Diamanti) per un partito che, come avevano ad esempio osservato Bobba e Seddone (Ragion Pratica, n. 1, 2016), aveva conosciuto tendenze alla personalizzazione senza divenire un vero e proprio partito personale, oggi appare realtà.
A tal proposito fondamentali sono stati i passaggi che si sono consumati dalla sconfitta del 4 dicembre in poi. Con una popolarità personale calante e alla guida di un partito che i sondaggi segnalavano in calo di consensi, Renzi ha combattuto strenuamente (nonostante le promesse di abbandonare la politica in caso di sconfitta al referendum, promesse che non aveva probabilmente mai avuto intenzione di mantenere, essendo quello del “o vinco, o lascio” un suo artificio retorico sin dal 2009) per mantenere un ruolo politico. Costretto dai numeri della sconfitta a dimettersi da Palazzo Chigi, si è dimesso poi dal partito sapendo di essere in grado di tornare in sella per mancanza di contendenti e con il voto del 30 aprile 2017 ha messo in moto l’ulteriore ‘renzizzazione’ del partito e dei suoi organi dirigenti. Con la composizione delle liste dei candidati per le elezioni politiche di marzo ha compiuto l’ultimo passo. L’ultimo passo per mantenere il controllo di ciò che rimane del Pd, un partito ormai votato soprattutto da anziani e garantiti, e farne la sua macchina di manovra quando dopo il voto cominceranno le danze per la formazione del governo. Per questo, dopo il 4 marzo, possiamo immaginarci l’elaborazione di ‘argomentazioni’ per spiegare perché, nonostante un risultato inferiore a quello raggiunto da Bersani nel 2013, il leader del Pd non dovrà dimettersi. Doveva cambiare l’Italia. Si prepara a fare una coalizione con Berlusconi, ormai un decano della politica secondo i propri interessi. Ma può sorprendersi solo chi non aveva colto l’essenza del personaggio. E chissà quali sorprese ci riserveranno Salvini e Di Maio.
In conclusione, possiamo cogliere il paradosso di una politica dove più si personalizza, più si uccide la leadership. Questi che chiamiamo leader di partiti personali non sono in realtà leader, sono avventurieri. Non delineano nessun orizzonte, non propongono alcuna visione. Cavalcano il senso comune, colgono opportunità, annusano il vento per rimanere in sella. Sono quanto di più inutile (e dannoso) ci potesse capitare.
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