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Grillo sbaglia, e tanto, ma i giornali gli rendono le cose molto facili

4 Gennaio 2017

Sulle prime pagine di Repubblica e Corriere della Sera ieri si leggevano titoli come questi: «Un killer cinese, 180 colpi, a segno uno su due» o «Il terrorista venuto dalla Cina». Sempre ieri, sulle edizioni online degli stessi giornali i titoli erano del tutto diversi: «Il kirghiso sospettato: “Non ero in Turchia”» e «Rilasciato anche il kirghizo. “Non sono io”». E non sembra che ciò sia dipeso in modo decisivo dalla ovvia differenza dei tempi di lavorazione tra carta e online. Ciò che è accaduto è che, invece, prima si è sintetizzata come certa una notizia non verificabile né accertata – tanto che quegli stessi giornali nelle pagine interne hanno correttamente utilizzato il condizionale e scritto di ipotesi – e poi si è dovuto prendere atto della realtà, sebbene in ritardo sugli eventi. Questo è lo stato delle cose, ed è mortificante.

Naturalmente, in casi come questo è normale che le notizie si susseguano e che, soprattutto nelle fasi iniziali della inchiesta, ogni circostanza possa essere rimessa in discussione, anche al di là d’ogni certezza che gli inquirenti possano affermare. Ecco allora che, per evitare perdite di senso, sarebbe stato sufficiente fare ciò che s’è sempre fatto, o che almeno si usava fare sino a qualche tempo fa: trattare le notizie con tutte le cautele necessarie.

In questo modo, però, i titoli avrebbero finito per essere meno efficaci di quelli poi effettivamente pubblicati su carta. E però evidentemente – sebbene la notizia non poteva essere data per certa – si è ritenuto che un titolo evocativo come era, appunto, «Il terrorista venuto dalla Cina», fosse comunque migliore di un titolo tipico da cronaca come, ad esempio, avrebbe potuto essere: «Il sospettato dell’attacco è cinese», o anche: «Cinese uighuro il killer?», che era il titolo scelto da Avvenire per la sua prima pagina.

Così, per star dietro ai meccanismi di questa benedetta narrazione fatta di evocazioni e parole evanescenti che costruiscono contesti su brandelli di realtà dei quali non si è neppure certi, invece di affidarsi alle regole solidissime della cronaca, si è finito per fornire una informazione non corrispondente del tutto alla realtà. E lo si è fatto in prima pagina, mentre poi all’interno l’informazione è stata fornita correttamente.

Questo genere di approssimazione – si dovrebbe dire: la prevalenza del famigerato storytelling sulla cronaca – e anche il trattare il giornale di carta come fosse una edizione online, si sta traducendo in una mancanza di quella cura che la carta ha sempre richiesto, e che tuttora richiederebbe. Anche questo alla fine sta allontanando i lettori dai quotidiani. E infatti le vendite dei quotidiani italiani vanno a picco mese dopo mese in misura impressionante, come raccontano i dati drammatici diffusi periodicamente da Prima Comunicazione. Ma a quanto pare l’argomento interessa a pochi.

Più interesse ha invece sollevato ieri l’uscita infelicissima e pericolosa di Beppe Grillo a proposito di certe giurie popolari che si dovrebbero occupare di notizie e informazione, una roba di stampo reazionario che fa paura soltanto a immaginarla e che racconta di una visione del sistema della informazione del tutto inaccettabile se non in uno stato autoritario. Ottima cosa, dunque, che in molti ieri se ne siano preoccupati e che abbiano reagito anche con una qualche ruvidezza.

Meglio ancora sarebbe, però, se si potesse evitare un certo genere di sciatteria nel fare i giornali in modo da non regalare una parvenza di senso a certe uscite, come quella di Grillo, che altrimenti rimarrebbero soltanto folklore. E – ma qui siamo già ai desideri più sfrenati – non sarebbe male se anche all’interno dei grandi giornali, mentre ci si scandalizza per le terrificanti boutade grilline, emergesse anche una riflessione seria sulle responsabilità dello stato delle cose e, più di tutto, sulle responsabilità del destino quasi disperato dei giornali stessi che, almeno per il momento, non pare sia attribuibile agli eccessi di Grillo.

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