Partiti e politici

Giorgia troppo sola al comando, Gigino del Golfo e l’armocromia stonata di Elly

29 Aprile 2023

La settimana che si chiude, si chiude col botto. A schiantarsi rumorosamente, seppur per poche ore sepolte poi da un rapido rammendo e da un fiume di scuse, è la maggioranza di governo guidata da Giorgia Meloni. Mentre la presidente del Consiglio era a Londra a condividere col suo omologo Sunak la preoccupazione per l’invasione di immigrati, infatti, i gruppi parlamentari si son trovati sguarniti per una serie di assenze più o meno ingiustificabili e così, pur godendo sulla carta di amplissima maggioranza, il governo è andato sotto e, in prima battuta, un documento importante come il DEF è stato bocciato.
L’episodio in sé rivela più che altro il pressappochismo e la leggerezza con la quale la maggioranza approccia impegni istituzionali importanti. L’episodio non avrà conseguenze particolari, ed è già stato “recuperato” materialmente con un voto a esito positivo. Eppure merita di essere sottolineato e ricordato nel tempo per diverse ragioni. Tra le meno importanti – tanto i buoi sono scappati – c’è che la eco che arriva nella società è la solita: quella di una politica praticata da professionisti pigri, che pensano poco agli affari di tutti e molto ai loro, che – guarda caso proprio nel mezzo dei ponti di primavera – stanno poco a Roma e molto altrove. Come sempre, come da decenni, questa vulgata coglie dei punti di verità e tuttavia trascura verità di segno diverso e opposto: che i parlamentari lavorano non solo in Parlamento, che fare di tutte le erbe un fascio e di tutte le assenze un’unica fannulloneria è molte volte ingiusto, e altrettante inutile. Va poi sottolineata una coincidenza abbastanza curiosa: proprio mentre Meloni è in giro per il mondo a costruire la tela di una credibilità internazionale tutta da conquistare, ed esibisce assi e allineamenti con chi condivide le sue posizioni su alcune delle materie più identitarie e caratterizzanti, la maggioranza di destra che si regge anzitutto sul suo partito non riesce a votare al primo colpo un provvedimento fondamentale per la credibilità internazionale del paese. Cioè l’obiettivo che Meloni persegue con particolare convinzione, e con altrettanto bisogno.

La sconfitta parlamentare sul DEF richiama o consiglia, invero, molti ragionamenti di materia e tono diversi. Una pista non scontata, anche se forse dovrebbe esserlo, la suggerisce Mario Monti sulle colonne del Corriere della Sera, quando – invitando a guardare le prossime generazioni, e non le prossime elezioni o emissioni (di titoli di debito pubblico) – ricorda che una priorità dell’Italia sarebbe quella di decidere se vuole diventare un paese affidabile e oculato nella gestione delle sue poche risorse pubbliche e del suo già troppo debito, o rimanere quello che è. Un’altra riflessione ragionevole, che speriamo a Giorgia Meloni sia arrivata come improrogabile, dopo averla già molto lungamente rimandata, riguarda la necessità di delegare a persone fidate ma altre da sé, da un lato, e di dialogare davvero con le altre forze politiche che compongono la maggioranza, dall’altro. Già molte volte raccontata dai giornali su tutti i dossier politicamente più importanti – a cominciare dal PNRR – sia che Meloni proprio non riesca delegare. Non si fida, e forse ha anche ragione, o non sa farlo. Resta che senza deleghe e senza dialogo non si naviga davvero, quando si è alla guida di una nave grossa e complicata come quello del governo. Senza irrobustire il rapporto con alleati recalcitranti e in cerca di autori che ne scrivano il destino al futuro, inoltre, incidenti come quello capitato sul DEF potranno diventare sempre più frequenti e, accumulandosi, anche più dolorosi o nocivi per la salute della maggioranza stessa. Quello dei giorni è stato molto probabilmente solo un incidente, ma sarebbe consigliabile, per la premier, di non farsi trovare così sola al comando quando qualcuno tra i suoi alleati avrà un piano vero per farle davvero del male.

Chi non ha bisogno di consigli è invece Luigi Di Maio. La sua nomina a rappresentante speciale della UE nel Golfo Persico procede a passi spediti, e non sembra poter più incontrare resistenze di sorta in sede europea, che è poi dove davvero si decide di questa nomina. Giovedì 27 Aprile la nomina proposta dal Commissario Borrel è infatti stata ratificata dagli ambasciatori Ue nel Comitato Politico e di Sicurezza della Ue. I prossimi passaggi prevedono la ratifica definitiva definitiva e senza discussioni da parte degli organismi politici della Ue, e nessuno si aspetta sorprese. La storia di Di Maio, da un decennio sfottuto da ogni lato come Gigino il Bibitaro, prosegue incamerando l’ennesimo importantissimo incarico. Ancora abbastanza lontano dalla soglia dei 40 anni, l’ex leader politico del Movimento 5 Stelle è stato vicepresidente della Camera, vicepresidente del Consiglio con in carico i ministeri dello Sviluppo Economico e del Welfare (una volta si sarebbe detto dell’Industria e del Lavoro), poi due volte ministro degli Esteri, una volta in un governo di centrosinistra retto dallo stesso Giuseppe Conte che lo aveva fatto suo vice quando era anche il premier della Lega,  e una volta con Mario Draghi, nel governo battezzato come “dei Migliori” senza troppe discussioni pubbliche. Guardando questa carriera così rapida, che sembrava arenata dopo le percentuali da prefisso telefonico raccolte dalla formazione politica fondata da Di Maio in occasione del voto del 25 Settembre, si possono fare alcune considerazioni che magari valgono al di là del singolo caso. La prima: in un’epoca che non premia più né le competenze né le lunghe gavette politiche contano più che mai opportunismo e abilità mimetiche. Conta il “coraggio” sfacciato di fare cose molto più grandi di quelle che si sono mai fatte. Conta la capacità di dimostrarsi affidabile agli occhi di burocrati di stato e di ministero, o di Commissione Europea. Conta la capacità di tacere e sparire al momento giusto, ad esempio dopo un esito elettorale disastroso. Cose che Di Maio ha dimostrato di saper fare, molto bene, con l’incredibile capacità ieratica di chi si lascia scorrere addosso senza reagire le accuse più ingiuste. Tra queste, quelle dei leghisti, a lungo suoi amici e alleati, corresponsabili di primo piano nella carriera di grande successo che poco sopra abbiamo ricostruito per punti cardine. Gli stessi leghisti che a suo tempo, addirittura, avrebbero accettato che facesse lui il Presidente del Consiglio e che, a fronte di questa nomina europea, hanno starnazzato per giorni parlando di scelta vergognosa. Tutto normale, conosciamo la superficialità della propaganda di questo tempo. E tuttavia, pur conoscendola, non è giusto neppure rassegnarsi alla dimenticanza di chi ha fatto, e di cosa. Quella di Di Maio è una carriera che in un tempo più serio di questo non avrebbe fatto neppure De Gasperi. Chi l’ha aiutato in tutti i suoi principali scatti di carriera deve solo stare zitto, e ringraziare noi per la clemenza.

Forse per togliersi di dosso la patina opposta, quella di secchiona pedante, quella insomma di persona di sinistra, Elly Schlein rilascia la prima intervista alla stampa italiana a Vogue. Una lunga intervista in cui parla ovviamente di molte cose, ma essendo Vogue parla anche della sua dimensione più pop, più light. Un’intervista in cui non si nega spazio al cazzeggio, per dirla in sintesi. Ed è così che scopriamo dell’esistenza del mestiere dell’armocromista, e nello specifico di Enrica Chicchio, la professionista specializzata in armocromia che aiuta Elly nella scelta del look e dei colori, che in pochi giorni ha rilasciato già più interviste di quelle che la sua più illustre assistita ha collezionato in qualche mese di segreteria. Qualcuno lamenta che la segretaria aveva parlato di tante tante cose, e che i giornali si sono concentrati solo sui dettagli. E tuttavia, era difficile immaginare che andasse diversamente. Quindi, i casi sono due: o Elly ha sbagliato con ingenuità raccontando di questo elemento del suo staff, e sarebbe grave, oppure ha deciso che se ne parlasse accettando che se ne sarebbe parlato molto, perché anche così si diventa noti, e la notorietà serve alla popolarità (anche se non basta e non sono sinonimi, anzi). Qualora questo secondo fosse il caso, io personalmente non mi permetto di giudicare con sicurezza. Schlein cammina verso un tempo ignoto, in cui più dei gusti di chi scrive contano variabili strane. Le mie perplessità sulla traiettoria sono politiche, e non sarà un’armocromista a cambiare le tinte che, per ora, vedo nel cielo della sinistra italiana. Mi chiedo – ma sono all’antica – che effetto farà vedere rimbalzare sui social network questa parola strana e questa pratica esotica, associata al nome della leader del Pd, agli occhi del popolo della provincia impoverita e spaventata del nostro paese: quel popolo sempre più lontano dai radar dell’attenzione, e che poi quando va a votare preferisce sempre altri, e altro, rispetto a quel che il Pd propone. Ma sono dubbi uggiosi. I primi a difendere Elly e il suo diritto all’armocromia sono stati Matteo Renzi e Daniela Santanchè. Cercheremo di fidarci di loro.

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