Partiti e politici
Giorgia si logora piano, Carlo e Matteo hanno fretta. E Salvini torna alla ruspa
La settimana politica che si chiude ha per grande evento un piccolo divorzio, quello tra Matteo Renzi e Carlo Calenda. Grande perchè molto discusso e chiacchierato. Piccolo perchè i due non-partiti di Calenda e Renzi, messi assieme, rappresentano nella migliore delle ipotesi molto meno del 10% dell’elettorato complessivo, e i dati delle ultime elezioni politiche li ricordiamo tutti, quando presero meno dell’8%. Come capita sempre, e da sempre, il “voto moderato” e le “alleanze riformiste” sono molto raccontati e discussi dai giornali. Un po’ perchè – in qualche caso – i protagonisti che le animano sono abili nelle manovre di palazzo. Un po’ perchè – in tutti i casi, presenti e passati – è in loro che ripongono speranze e aspettative le èlite del paese che, per definizione, sono una piccola minoranza. Gli aggettivi con i quali si definiscono questi cartelli sono più o meno sempre quelli: centristi, riformisti, moderati, liberali. E anche gli esiti degli esperimenti seguono traiettorie sempre uguali a se stesse: grandi aspettative iniziali, narrazioni giornalistiche e politiche altisonanti, premesse e promesse ingombranti. Poi si vota. I risultati sarebbero anche dignitosi – fu il caso di Monti nel 2013, con quasi il 9%, o quello di Calenda e Renzi che si fermarono dieci anni dopo al 7,7% – ma avendo dichiarato ben altre ambizioni il raccolto finisce col sembrare misero. Pochi mesi dopo l’esperimento finisce in niente, i fondatori vanno ciascuno per la propria strada, e chi è entrato in parlamento cerca un’altra casa in cui stare, tendenzialmente con l’obiettivo di far vivere la legislatura fino al termine naturale e con quello, più ambizioso, di essere in parlamento anche in quella successiva.
Anche questa volta, dicevamo, le analogie sono tante, ma la morte in culla del progetto di partito unico ha il tratto peculiare della fine di un amore mai nato, dello sgretolarsi – tra gli stracci che volano – di un matrimonio di convenienza che neppure si è celebrato, perchè la percezione delle convenzienze, tra i due nubendi, era troppo diversa. E dire che la relazione, in teoria, doveva riguardare solo la politica, e nasceva sotto la buona stella di soggetti che dichiarano di rappresentare idee e interessi veramente simili. E tuttavia, evidentemente, gli interessi dei due generali alla guida di piccole truppe e le idee che davvero muovono la loro azione politica erano ben più divergenti di quelle che giustificano, spiegano, fondano un’azione politica. Tra gli stracci che volavano abbiamo letto diversi pizzini: in quasi tutti si parlava di soldi, della capacità di fund raising particolarmente spiccata nel partner fiorentino, che faceva il paio con la sua volontà di non sciogliere il contenitore cui afferiva il conto corrente, nè di rinunciare al principale evento-vetrina della ditta, cioè la Leopolda. L’altro, quello romano, ha dalla sua qualche voto in più nel paese. Ma neanche poi tanti. Non così tanti da rinunciare alla libertà di fatturare centinaia di migliaia di euro come conferenziere in giro per il mondo e di andare in tv tutte le sere come direttore di un giornale, per citare due attività a caso, e disponendo di un piccolo ma fedelissimo pacchetto di mischia di truppe parlamentari che – chissà – potrebbero essere utili a un certo punto al tavolo al quale si stabiliranno nuovi equilibri, e una nuova distribuzione di potere. Oppure conta soprattutto l’ego dei due protagonisti: che di questi tempi, e per queste generazioni, non può essere una sorpresa.
Chi al momento il potere ce l’ha, invece, se lo tiene stretto. E lo divide poco e – a quanto si apprende – malvolentieri. Sui giornali di queste settimane, complice la partita delle nomine dei manager delle grandi aziende partecipate dallo stato, che sono anche le più importanti aziende italiane, abbiamo infatti letto che lo stile della presidente del Consiglio Giorgia Meloni si caratterizza – apparentemente in maniera via via più marcata – per un piglio decisionista molto solitario. O almeno, questo è quel tenta di fare ogni volta che sul suo tavolo arrivano dossier davvero importanti. Meloni decide tendenzialmente da sola, consultandosi con la sua cerchia di fidati. Che non coincidono, neanche in misura simbolica, coi rappresentanti dei partiti alleati. La partita delle nomine in Eni, Enel, Leonardo e Terna non finisce come la premier avrebbe voluto, e alcuni manager sono considerati vittorie della Lega di Matteo Salvini, Scaroni (presidente Enel) e Cattaneo (ad della stessa azienda) su tutti. Ma Meloni può intestarsi molti degli altri nomi, e in particolare, da tempo immemore, la prima capa azienda donna, Giuseppina di Foggia, nominata ad di Terna. L’aveva “promesso” l’8 Marzo, ed è successo poco più di un mese dopo.
Il piglio accentratore con cui gestisce “le cose importanti” non è nuovo, per chi fa il suo mestiere. Quando conti nel determinare consenso, nella società, non è chiarissimo. E la lenta ma costante discesa dei suoi indici di gradimento registrati dai sondaggi potrebbe essere solo una flessione fisiologica che conoscerà inversioni, oppure indicare un destino ineluttabile come quello di tutti i suoi predecessori. Come altri che l’hanno preceduta, anche Meloni punta a far sedimentare gradimento e apprezzamento attraverso misure di bonus ai redditi mediobassi dei lavoratori dipendenti. L’investimento di tre miliardi sul taglio dei contributi a tutto vantaggio dei lavoratori con stipendi sotto i 25 mila euro annui è – si direbbe – una cosa “di sinistra”, evidentemente pensata per tanti pezzi di paese che la sinistra fatica da un pezzo a raggiungere. Una scommessa tra le tante, per fidelizzare il voto che sta fuori dalle ZTL, e anche piuttosto lontano dalle stesse.
Non che, con la mano destra, al governo non si facciano altre cose. L’ennesimo giro di vite sui migranti, sui permessi per motivi di salute, viene rivendicato dalla Lega come un grande successo personale di Salvini. Che quando non tocca la palla da un po’ ricomincia a giocare con la ruspa. Il primo amore non si scorda mai, del resto. E chi fatica a crescere, lo scorda meno degli altri.
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