Ambiente

Genova, la tragedia di un paese schiavo di un presente in putrefazione

14 Agosto 2018

La tragedia di Genova è la tragedia di un paese intero, il crollo crudele dell’illusione che si possa sopravvivere in eterno vivacchiando, rinviando, non decidendo e accontentandosi al massimo di fare propaganda. L’abbiamo vista all’opera anche oggi, mentre le ceneri del Ponte Morandi erano ancora fumanti e il conto dei morti si aggiornava al rialzo di minuto in minuto, in bocca a politicanti di lotta e di governo pronti a rivendicare la “buona notizia” di un pugno di migranti che non arriveranno in Italia: manco fossero stati dei migranti a sabotare il viadotto genovese.

Lasciamo stare Salvini, lasciamo al loro destino tutti i politici che, da ogni parte, pensano che decine di morti e una tragedia immane siano l’occasione per uno zerovirgola di consenso. Stanno purtroppo da tutte le parti: a loro e ai loro elettori non possiamo avere niente da dire, servirebbe una mediazione culturale che per una volta rifiutiamo preventivamente.

Pensiamo, invece, al drammatico insegnamento di questa storia, e a chi ha avuto, ha e avrà voglia di capire prima, provando a evitare lacrime evitabili, dopo. La storia del Ponte Morandi è in fondo la storia di un paese che da troppi anni preferisce assecondare rabbie e interessi e veti di piccoli gruppi, piuttosto che prendere per le corna il toro del proprio invecchiamento, della propria obsolescenza, del proprio drammatico bisogno di investimenti.

Solo che gli investimenti costano: e richiedono che le tasse si paghino, tutti, e che si decida quali sono le priorità. Forse mettere mano a infrastrutture pericolanti – e su cui l’allarme degli esperti grava da tempo – è una priorità: ma se lo è, è necessario dirlo, e spiegare che il sacrificio di qualcuno serve al bene di molto. Anche i lavori di manutenzione e rinnovamento costano, in termini di qualità della vita di chi li “subisce”. E quindi? La politica vera non ha paura di dirlo. E poi di farlo.

Quanto costa? Ditecelo. Non sono solo i miliardi che servono, il problema. Sono, molto di più, i punti di consenso. Siamo, in fondo, all’assenza della sfida lanciata da quelli che chiamiamo “populismi”. Che raccontano soluzioni semplici come se i problemi non fossero complessi. I problemi però sono complessi, e troppi decenni di populismi temperati e vagamente pudichi ci hanno consegnato a un eterno presente di populismi espliciti e orgogliosi.

Serve rompere il circolo. Serve parlare parole di verità senza arroganza. Servono imprenditori che, invece di stare tutto il giorno su giornali letti dai loro amici a spiegare i pericoli del populismo, dopo aver omaggiato per decenni Berlusconi, mettano mano al portafoglio per sostenere una politica popolare e realista. Serve il coraggio del lungo periodo in un tempo schiavo del presente in putrefazione.
Serve chi conosca le strade, chi entri nei bar e racconti la verità senza il piedistallo di una cattedra, serva chi spieghi, credibilmente, quando sono pericolanti certi ponti: a chi li percorre tutti i giorni, per guadagnare mille euro al mese, o a chi, meno fortunato, è costretto a dormirci sotto.

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