Partiti e politici

Fumo di Londra e qualche appunto sull’Italicum

2 Maggio 2015

Fumo di Londra” è un film del 1966 scritto, diretto e interpretato dal mitico Alberto Sordi. Non certo una pellicola entrata negli annali del cinema italiano, ma che viene a volte citata facendo riferimento all’ottima colonna sonora firmata da Piero Piccioni (molto conosciuto il brano “Breve Amore”, reinterpretato tra le altre da Mina). Nel film un antiquario di Perugia (l’Albertone nazionale) si reca a Londra per lavoro e si trova coinvolto in un gioco di equivoci e mistificazioni durante il quale il nostro si camuffa con abbigliamento perfettamente british. Al di là della disamina cinefila, perché parlare oggi di “Fumo di Londra”? Perché manca meno di una settimana ad una consultazione elettorale che si preannuncia come la più imprevedibile ed incerta del dopoguerra: le elezioni politiche britanniche del 7 maggio. Elezioni che, per chi le ha seguite da osservatore o da semplice appassionato, si sono rivelate dense di tendenze interessanti e punti interrogativi. Essendo reduci da una settimana intensissima sul fronte politico interno, durante la quale la riforma elettorale in dirittura d’arrivo ha tenuto banco su tutte le prime pagine dei giornali, è utile pigliare la bombetta e seguire Sordi tra le nebbie di Albione. Quello che ci attende è un Regno Unito incerto sul futuro, appena confortato dalla ripresa seguita ad anni di inflessibile austerity Tory, ancora sconvolto dalle tensioni accese durante il recente referendum per l’indipendenza della Scozia, intimorito da potenziali tagli draconiani al sistema di welfare o da un eventuale svolta “tassa-e-spendi” di marca laburista. Un Regno Unito, commenta il popolare sondaggista Nate Silver in una recente intervista al Telegraph, al centro di una “rivoluzione tranquilla”: “Non solo non ci potrebbe essere un partito con una maggioranza, ma addirittura due partiti che non possono formare una maggioranza”.

Fornire un’analisi complessiva dello scenario politico britannico esulerebbe dallo scopo di questo post. Mi limiterò dunque a qualche flash, emerso dalla lettura dei principali quotidiani britannici nelle ultime settimane. I due grandi sfidanti che si contendono l’ingresso al numero 10 di Downing Street sono ovviamente il Primo Ministro uscente David Cameron, leader dei conservatori, ed Ed Miliband, a capo dei laburisti eredi di Tony Blair e Gordon Brown. Gli altri attori sono il Vice Primo Ministro liberaldemocratico Nick Clegg, la solida leader dello Scottish National Party indipendentista Nicola Sturgeon e il fumantino Nigel Farage, a capo degli euroscettici dello Ukip. Clegg, forte del successo dei lib-dem alle elezioni del 2010, è stato protagonista del primo inedito governo di coalizione britannico. È ipotizzabile una riedizione della coalizione di governo uscente, il cui bilancio è piuttosto contestato? O i laburisti saranno costretti a mettere insieme un governo di minoranza contando sulla desistenza dei nazionalisti scozzesi, il cui consenso è in continua crescita nonostante il fallimento del recente referendum pro-indipendenza? Il sistema elettorale britannico, al centro di numerose critiche, è solitamente sintetizzato con la formula “first-past-the-post”: collegi uninominali in cui vince un solo candidato, a prescindere dalla percentuale di voti conquistata. Qualche considerazione alla luce delle polemiche anti-Italicum agitate negli scorsi giorni (sorvolando sulle accuse di deriva autoritaria cripto-fascista per carità di patria).

1) Paese che vai, sistema (e critica) che trovi. Gli inglesi non sono particolarmente soddisfatti dell’attuale sistema elettorale. Già in occasione delle scorse elezioni, il Guardian lo definì in un suo rovente editoriale “grottesco ed unfair”. A colpire maggiormente l’ineludibile disproporzionalità tra i voti espressi e la configurazione della Camera dei Comuni: hanno più possibilità di inviare una nutrita truppa di deputati a Westminster partiti locali che sono concentrati solamente in alcuni collegi rispetto a partiti nazionali caratterizzati da un consenso più spalmato e diffuso. È quello che potrebbe accadere tra una settimana, quando i nazionalisti scozzesi dovrebbero conquistare qualcosa come una cinquantina di seggi e diventare l’ago della bilancia, mentre gli euroscettici dello Ukip (primo partito alle europee 2014!) dovrebbero accontentarsi di una manciata di deputati. Traduzione truffaldina e anti-democratica dei voti in seggi? Una Legge Acerbo in versione british? Semplicemente un sistema che ha garantito l’alternanza tra due partiti e solide maggioranze di governo fino al 2010.

2) E se Londra avesse introdotto i capolista bloccati? Questo punto è volutamente provocatorio, ma mette in luce uno degli aspetti dell’Italicum sul quale si sono maggiormente concentrati gli strali dei suoi oppositori. Soprassedendo sulla valenza salvifica attribuita a corrente alternata (e in base al momento storico) alle preferenze, è facilmente intuibile la fondamentale ricaduta pratica di tale previsione: un piccolo partito che intenda sopravvivere alla non temibile soglia del 3% con la certezza di inviare a Montecitorio il proprio leader, verrà agevolato qualora abbia individuato un collegio “sicuro” in cui blindare la candidatura del segretario. Nel Regno Unito, paradossalmente, sia il Vice Primo Ministro uscente Clegg sia il controverso leader dello Ukip Farage rischiano di non ottenere un seggio, vedendosi irrimediabilmente precluso un ruolo da protagonisti sul proscenio nazionale. Non è forse cool l’ipotesi che Ncd possa assicurarsi l’elezione di Angelino Alfano paracadutandolo in un sicuro collegio meridionale, ma nel fluido contesto italico è difficilmente immaginabile che micro-partiti personalistici oltrepassino la soglia orbati del loro leader. Si obietterà che Renzi è stato in grado di affondare Letta senza essere deputato e che il partito del governatore della Puglia Vendola ha comunque fatto opposizione in Parlamento senza la sua guida diretta. Vero, ma immaginare l’ipotesi contraria aiuta comunque a relativizzare il presunto “vulnus” dell’Italicum. I posti sicuri sono sempre esistiti, al massimo garantiti con altri mezzi.

3) Garantire stabilità e certezza del risultato. C’è un aspetto fondamentale che aiuta a misurare l’inadeguatezza dell’attuale sistema britannico: la totale incertezza del risultato. Al momento attuale, sondaggi e proiezioni alla mano, non è ancora possibile prevedere chi entrerà al numero 10 da premier. Non si tratta solo di disquisizioni da editoriale domenicale. In gioco vi sono decisioni economiche di valenza strategica, previsioni legate alla futura rimodulazione della tassazione e addirittura alla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. L’incertezza, soprattutto in questi casi, può diventare rapidamente controproducente e pericolosa. Nel momento in cui la tenuta dei governi diventa un’incognita e l’avvicendarsi dei Primi Ministri rischia di dipendere da fattori marginali (quanti seggi conquisteranno gli scozzesi a scapito dei laburisti? Quanti elettori laburisti smetteranno di votare tatticamente per il candidato lib-dem del loro collegio agevolando la vittoria dei conservatori?) si rende urgente una messa a punto del meccanismo elettorale. È questa, almeno nelle intenzioni, la ratio che soggiace all’introduzione del cosiddetto Italicum: garantire governi di legislatura, consegnare al partito vincente una solida maggioranza parlamentare, estirpare la tendenza a mettere in piedi coalizioni in grado di vincere ma non di governare. Ne tengano conto gli anti-Italicum che gridano al ritorno della dittatura.

Tra pochi giorni sapremo il risultato delle elezioni britanniche più controverse del secondo dopoguerra e potremmo trarne utile food for thought da utilizzare nel dibattito nostrano. I sistemi elettorali sono indubbiamente materia di discussione per politologi e nerd della politica, ma è dal loro corretto funzionamento che dipende il livello di salute delle nostre democrazie.

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