
Partiti e politici
Franceschini: “Meno siamo meglio stiamo”
Dall’officina con neon, brugole e l’odore dolce della fine
Dario Franceschini ha rilevato un’officina. Letteralmente. C’erano brugole, neon tremolanti, una parete con l’umidità del Novecento, e lui ha pensato: perfetto, ci faccio il mio ufficio politico. D’altronde, non è la prima volta che la sinistra italiana confonde il motore con la metafora. Solo che stavolta la metafora è diventata arredamento. E probabilmente diagnosi.
Lì dentro, tra cacciaviti e Padre Pio, il meccanico del Partito Democratico lavora. Chino sul cofano di un partito che tossisce, arranca, perde olio e memoria. Smonta, rimonta, ingrassa, guarda i pezzi e sospira. Il campo largo? Troppo largo. L’Ulivo? Appassito. L’alleanza con i 5 Stelle? Saldatura fragile. Serve altro. Forse un tornio. Forse un esorcista. O un prete operaio con specializzazione in esorcismi e carburatori.
Ma il punto è che Franceschini non vuole più aggiustare la macchina. La sua proposta è chiara, chirurgica, disillusa: ognuno alle elezioni col proprio simbolo, col proprio carrozzone, col proprio libretto d’istruzioni. Non è solo l’addio al campo largo. È una frase non detta ma scritta a chiare lettere sulle pareti dell’officina: basta anche col PD così com’è.
Un messaggio che pare brutale, ma che Franceschini pronuncia col garbo di chi sa dove porta la strada e ha già cambiato le gomme in tempo. È la versione post-democristiana del ritiro strategico.
Il vecchio partito non funziona? Lo si svuota, lo si lascia lì, magari si riutilizza come autorimessa. E ognuno riparta col proprio scooter.
In fondo, era tutto già stato profetizzato in una vecchia canzone di Renzo Arbore – che ingenuamente pensavamo fosse un’esclusiva di Massimo D’Alema: “Meno stiamo, meglio stiamo.”
Nel frattempo, fuori dall’officina, il mondo impazzisce. Trump si allea con Putin, Musk sniffa geopolitica e minaccia dal balcone del metaverso, l’Europa si riarma e cerca una voce comune.
E il PD?
Mette i fiori nei cannoni, ma sbaglia il vaso.
A Bruxelles si vota sul piano von der Leyen e i Dem arrivano spaiati, disorientati, con lo sguardo di chi ha perso il pullman e ora prova a sembrare sereno.
Una specie di scuola media del centrosinistra in gita senza autorizzazione firmata.
E mentre la segretaria Schlein si arrampica sugli specchi diplomatici, nella sua officina Franceschini non dà più nemmeno giudizi. Sta. Aggiusta. Osserva. Lascia che siano gli altri a rompersi.
Entra Luigi Zanda – uno che, quando parla lo fanno ancora sedere – e dice che serve un congresso straordinario. Franceschini annuisce. Non risponde. Sta ascoltando un cigolio.
Non si capisce se viene dalla macchina o dal partito. In entrambi i casi, sarà difficile trovare il pezzo di ricambio.
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