Partiti e politici

Fine di una storia e inizio di un’altra

2 Febbraio 2021

Il 3 febbraio del 1991 si concluse a Rimini il XX congresso del PCI nel corso del quale si decise di chiudere l’esperienza del partito comunista e di dare vita ad una formazione politica, il Partito democratico della sinistra (PDS) che, senza ripudiare la parte più nobile della storia del comunismo italiano, sancisse, in modo irrevocabile, l’adesione ai principi della democrazia occidentale e la conseguente rinuncia alla prospettiva della società socialista

Quanto accadde a Rimini non era che la tappa conclusiva di un accidentato cammino segnato dal lento ma inarrestabile processo di trasformazione di un partito, nato dalla traumatica scissione del 1921, con un imprinting “rivoluzionario” e quindi incompatibile con la democrazia liberale, in un partito democratico, parte della famiglia della sinistra riformista, custode fedele di quei principi democratici garantiti dalla Costituzione repubblicana del 1948.

Il nuovo partito, partito democratico della sinistra, adottava come simbolo la Quercia relegando ai margini quella “falce e il martello” che, per oltre sessant’anni, aveva costituito per contadini ed operai un riferimento imprescindibile nelle lotte per il riscatto e la emancipazione sociale ed economica.

Una decisione, quella di Rimini, che avrebbe potuto essere traumatica – ed in parte lo fu vista la diaspora di alcuni importanti leader che non accettarono la svolta – ma che grazie alla sapiente conduzione e alla passione di Achille Occhetto, il segretario del partito, non produsse se non marginali lacerazioni rispetto a quelle temute.

Certo qualcuno – era il caso di Cossutta – troppo legato alla vecchia storia del partito, come si è detto, preferì abbandonare il partito rifugiandosi in una nuova formazione partitica, mi riferisco a “Rifondazione comunista”, ma la gran parte dei militanti e dei simpatizzanti rimase dentro, forse intuendo che sulle nostalgie del passato difficilmente si potesse costruire il futuro.

Ed in effetti, non si poteva negare che quel cambiamento fosse una ricaduta necessaria ed un effetto del nuovo contesto in cui si era venuto a trovare il partito, un contesto che vedeva bruciati i tradizionali riferimenti culturali e politici.

Il crollo del Muro di Berlino e la fine del socialismo reale, avevano infatti fatto cadere gli ultimi ostacoli a quel balzo in avanti che il partito, nonostante qualche evidente insofferenza e qualche strappo, non era ancora riuscito a compiere abbandonando, definitivamente, la prospettiva rivoluzionaria a favore di quella riformista.

Infatti, non sfuggiva ai più che quella trasformazione avrebbe consentito di superare la storica conventio ad excludendum che, nel corso dei precedenti oltre quarant’anni, aveva relegato i comunisti all’opposizione.

Il nuovo partito, ora, era pienamente legittimato a candidarsi al governo del Paese, una condizione che apriva orizzonti nuovi per la crescita civile e democratica dell’Italia.

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