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Fenomenologia della #MaratonaDiAtene
In una bollente domenica di luglio si è consumato il giorno più lungo per la Grecia, e per l’Europa. Noi l’abbiamo potuto seguire, a distanza di teleschermo, grazie alla lunga diretta – più di sette ore – che il direttore Enrico Mentana ha dedicato agli esiti di quello che, sui social media, è stato subito ribattezzato #Greferendum.
Trasformare il referendum greco in un “evento mediale” sui generis non era affatto semplice, né scontato: il largo pubblico della televisione generalista è, almeno in Italia, piuttosto allergico alla politica estera. Ogni volta che un talk televisivo abbandona il pollaio di casa per dedicarsi alle tematiche, anche drammatiche, che circondano il Belpaese il rischio di una flessione negli ascolti è dietro l’angolo (quest’anno il più coraggioso di tutti è stato Corrado Formigli, che al suo Piazzapulita ha dedicato puntate molto ben fatte – soprattutto nei servizi filmati – alla minaccia dell’Isis). Insomma, non è semplice spiegare al telespettatore medio che un’eventuale uscita della Grecia dall’euro o – di nuovo – la guerra in Siria e lo Stato Islamico, non sono “affari loro”, ma “affari nostri”.
Il direttore del TgLa7 ha avuto la lungimiranza di capire l’interesse crescente per la questione greca. E non soltanto perché il “Grexit” è diventato, a tutti gli effetti, un caso politico anche nazionale (con la carovana degli ateniesi d’Italia – non i turisti in vacanza – ma Grillo e i pentastellati, la sinistra radicale dei Fassina, dei Vendola, dei Fratoianni, per non parlare dei leghisti rimasti a tifare Tsipras dall’assolata “Padania”…). Ma perché, questa volta, tutti quanti (almeno coloro che leggono un giornale o seguono un po’ la politica in TV) avevano la sensazione che questo referendum portasse con sé conseguenze decisive per l’Europa.
Con indiscutibile fiuto giornalistico, Mentana ha avuto ragione. Mentre la lunga #maratonadiatene procedeva sulle frequenze di La7 appariva chiaro, anche solo con uno sguardo ai social network, che l’evento c’era (e l’evento c’è, come insegnano Daniel Dayan ed Elihu Katz, se c’è l’audience…): verso sera il #Greferendum fa esplodere Twitter in Europa, mentre in Italia entra in trending topic proprio la #maratonadiatene allestista da Enrico Mentana.
I dati dei social media vanno maneggiati con cautela perché, soprattutto nel caso di Twitter, rispecchiano gli interessi di una minoranza molto attiva e consapevole, che costituisce solo una nicchia del corpaccione dell’audience generalista. Questa volta però l’esplosione social ha riflettuto direttamente l’attenzione di un più ampio pubblico televisivo. I dati Auditel del giorno dopo parlano di quasi 1 milione di spettatori (6,5% di share) per le sette ore di diretta, e di 1.330.000 spettatori (7% di share) per le due ore di prime time (20.30-22.30). Per intenderci, La7 ha battuto Raitre, Retequattro e Italia 1. Il pubblico è certo quello dell’informazione in tv, più maschile, più adulto-anziano, almeno diplomato se non laureato (fra i laureati lo share balza al 15%). Ma quali sono le ragioni di questa scommessa vinta della #maratonadiatene, e quali riflessioni ci porta a fare?
Dal punto di vista delle logiche più strettamente televisive, la maratona è stata un azzardo relativo, calcolato e perfettamente riuscito. Sono queste le occasioni in cui una rete come La7 “si accende”. Lo fa tanto più quando tutte le altre sono mezze spente, o sonnacchiose. La maratona (e qui ne parlo in senso generale) è ormai un vero e proprio genere televisivo la cui paternità è chiaramente mentaniana. Il “terzo polo” di Urbano Cairo ha solo da guadagnare da questi eventi poco costosi e altamente performativi. C’è poi la maestria di Mentana, che, come un accorto domatore, riesce ad allestire un circo di inviati e opinionisti fatto oggetto di battute frizzi e lazzi. La maratona mentaniana riesce a coniugare serietà d’analisi con un tono da commedia, nella quale compaiono personaggi fissi (l’inviato vessato, solitamente Paolo Celata; il commentatore sottilmente e simpaticamente deriso, in questo caso, Sergio Cofferati, Claudio Borghi o Gaetano Quagliarello), meccanismi ricorrenti (lo “svelamento” del retroscena, come quando s’intravede un fonico in studio o vengono impartiti ordini al giornalista sul campo o alla regia), inediti e sorprendenti crossover (come quando sullo schermo compare Diego “Zoro” Bianchi che saluta da Atene la sua spalla Marco Damilano, sempre pronto allo “spiegone” in studio). A volte non è chiaro se si sta seguendo Mentana che imita Crozza o Crozza che imita Mentana.
Sui social media, già durante la diretta, qualcuno notava la pesante assenza del servizio pubblico, impegnato nell’alto compito di mandare in onda una replica del Terence Hill alpino o un pessimo programma di viaggi che nessuno guarda, specie in prime time. Qualcuno faceva notare che la diretta c’era, bastava scanalare molto più avanti fino a raggiungere RaiNews (incrociando magari, nel frattempo, le all news della concorrenza commerciale e pay…). L’obiezione dimostra poca dimestichezza con le logiche della televisione. In TV il palinsesto resta sovrano e la messa in onda è un atto linguistico performativo: parlare della Grecia su Raiuno (o almeno su Raitre…) in prima serata significava non solo rilevare l’importanza del Greferendum, ma costruire un evento. Come ha fatto Mentana e La7. Come avrebbe dovuto e potuto fare il servizio pubblico.
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