Partiti e politici

Fare la sinistra, non dire la sinistra. A partire da noi.

14 Marzo 2015

Sull’ultimo numero de L’Espresso (19 marzo 2015) viene pubblicato un interessante reportage su Podemos a firma Alessandro Gilioli. L’autore è andato in Spagna a vedere i luoghi, a intervistare i fondatori e le persone che girano attorno al nucleo centrale e operativo di un partito-fenomeno molto interessante da studiare. Su Podemos è stato anche, recentemente, pubblicato un libro, Podemos, la sinistra spagnola oltre la sinistra, di Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena (Alegre 2015). Segno che questa formazione politica, passata da poco tempo dagli incontri semi-clandestini nel quartiere di Lavapiés a Madrid al 20-25% nei sondaggi che lo attestano come il primo partito spagnolo, suscita interesse, accende speranze, smuove emozioni. E alla fine tutti si chiedono: «e noi? In Italia possiamo?». Delle varie testimonianze che vengono raccolte da Gilioli, una mi sembra particolarmente interessante. A parlare è Carlos Falcon, direttore di Público, un giornale molto vicino al partito di Iglesias. Alla domanda sull’Italia, il giornalista non si limita solo a un’analisi di flussi elettorali, ma cerca di dare una risposta antropologica che lascia poco spazio alla speranza. In sintesi, ora, è troppo tardi:

«L’appuntamento con la storia voi l’avete avuto vent’anni fa, quando è crollata la Prima repubblica come da noi oggi sta precipitando il bipartitismo. Solo che in Italia la risposta è stata Berlusconi, con le sue tv: quindi ha vinto il populismo di destra. a nostra Tangentopoli è invece scoppiata nell’era di Internet, in un contesto di cittadinanza che si informa e si organizza autonomamente, senza farsi influenzare dai grandi media».

Le questioni sono moltissime e sarebbero argomento di ricerche ben più lunghe e strutturate di quelle che possiamo offrire nello spazio di un sito internet, o anche di libri scritti per riflettere ‘a caldo’ sull’attualità. Gli spunti che interessano, qui, per parlare di «Podemos e l’Italia e la sinistra» sono: 1) l’egemonia culturale berlusconiana come risposta alla ‘grande trasformazione’ di Tangentopoli; 2) Matteo Renzi e l’asso pigliatutto; 3) la sinistra identitaria, ancorata a modelli che non hanno risposta nella realtà; 4) il ruolo di Internet e la retorica della cittadinanza informata.

1. L’egemonia culturale berlusconiana come risposta alla ‘grande trasformazione di Tangentopoli’

Secondo Falcon la risposta al collasso della Prima Repubblica, un momento simbolico che ha di fatto chiuso una grande stagione politica, è stata l’ascesa di Silvio Berlusconi e, quindi, il trionfo del ‘populismo di destra’. Ha ragione, ma fino a un certo punto. La realtà sembra essere più complessa. Prima di tutto, più che ascesa sarebbe meglio parlare di trionfo di Berlusconi come protagonista dello spazio pubblico. Sappiamo benissimo che non crei ‘egemonia culturale’ dal nulla, e il 1994 è stato solo il risultato pubblico di un lavoro sotterraneo di riconfigurazione della cornice cognitiva e di pensiero degli italiani. Le televisioni, certo, lo stile di vita, ovviamente, ma anche quell’abbraccio della retorica liberista, della narrazione reaganiana del successo e del ‘costume nuovo’ che porta – nell’epoca del tardo-capitalismo – la totale distruzione dei confini ideologici e il totale abbandono dei freni inibitori come risposta al rigore della Prima Repubblica. In questo, gli anni Ottanta sono stati la ‘prova generale’. Quello che Falcon ignora è proprio il fatto che Berlusconi non è stato un fenomeno estemporaneo, ma la risposta a una domanda che si è costruita col tempo. L’accidente storico è stato Tangentopoli, che ha distrutto classe e cultura politica. Ma non ci fosse stato il 1992, probabilmente la politica si sarebbe ugualmente configurata attraverso i ‘costumi nuovi’. Di fatto, il sottobosco culturale del paese stava cambiando: la famosa mutazione genetica e antropologica era già avvenuta. Le ‘grandi trasformazioni’ non capitano per caso, o dall’oggi al domani. Ma sono un processo lungo, che va preparato nel tessuto connettivo del paese. Se no è episodio, se no è pancia, se no non c’è niente oltre il risultato estemporaneo. La grande novità, inoltre, è rappresentata dall’evaporazione delle distanze ideologiche. Falcon parla di ‘populismo di destra’, e ha indubbiamente ragione. Ma ignora la matrice ‘sinistra’ di Berlusconi. Ovvero la capacità di aver introiettato un certo élan vital proprio della sinistra di matrice sessantottina: la libertà dei costumi, il rifiuto della gerarchia, l’odio verso ‘la generazione dei padri’ (una sorta di matrice situazionista della «rottamazione» renziana), la voglia di rivoluzionare il costume degli italiani. Non è un caso che molti dei consiglieri storici di Silvio Berlusconi siano stati ex appartenenti a formazioni comuniste o extraparlamentari come Giuliano Ferrara o Antonio Ricci (tra le altre cose, studioso appassionato di Guy Debord). Non è solo voltafaccia legato a interessi personali: è anche un progetto teorico più ampio in cui si configura Berlusconi come il ‘carnevale permanente’, il dada realizzato, la distruzione dei confini, delle contrapposizioni, del giusto vs sbagliato, dell’alto vs basso, della destra vs sinistra. La politica di Berlusconi è quella del populista di destra (la ‘sondaggite’ che determina l’azione politica sulla pancia degli italiani è roba sua), ma la sua azione nasce dal matrimonio fatale di destra e sinistra, e ne ha distrutto i confini.

2. Matteo Renzi e l’asso pigliatutto

La politica è ciclica e non c’è niente che sia per sempre, così come non sono totalmente convinto della famosa interpretazione degli italiani come popolo naturaliter di destra. Il problema è capire come strutturare una piattaforma di ampio consenso, credibile, di prospettiva e in grado di non ripetere gli errori del passato. Il centrosinistra riformista (quello che, secondo le critiche a sinistra, ha abdicato a se stesso abbracciando la logica del liberismo) ha trovato questa risposta in Matteo Renzi, primo leader post-ideologico di centrosinistra. «Un populista che costruisce il suo popolo», come ha scritto Marco Damilano nel suo ultimo libro La Repubblica del Selfie (Rizzoli 2015). Dopo lo ‘shock’ berlusconiano, la risposta prodiana – validissima politicamente ma incapace di fare breccia nel cuore pulsante del paese e quindi osteggiata – e la ‘cura’ montiana, ecco Matteo Renzi, nuova risposta alla domanda di se stesso. Vero e proprio asso pigliatutto che ha compiuto il progetto del Partito Democratico come ‘contenitore’ capace di superare i contrasti e ridurre le distanze (come diceva il suo primo segretario Veltroni). Matteo Renzi è un oggetto molto interessante da studiare. È limitante liquidarlo come leader di destra in un partito di sinistra. È limitante vederlo come una mera prosecuzione del berlusconismo. C’è molto di più, e la sua capacità di costruire un racconto coerente che crei ampio consenso ‘a partire dal centrosinistra’ per abbracciare anche ampie fette di elettorato di destra, elettorato centrista e anche qualche elettore del Movimento 5 Stelle, merita di essere studiata in maniera laica. L’errore che si può fare in questo momento, è impostare tutta un’azione politica sulla semplice contrapposizione all’attore pubblico protagonista. Matteo Renzi è riuscito a fare in poco tempo quello che nessuno è riuscito a fare dopo Berlusconi: riconfigurare su se stesso l’egemonia culturale del paese. Ora tutto viene fatto e discusso in contrapposizione a Renzi, al suo modo di fare, al suo modo di essere. Potranno fallire le sue riforme – che vanno discusse nel merito, perché molte sono alquanto discutibili – ma culturalmente ha rappresentato una sorta di ‘capitolo nuovo’. Non un salto del paradigma, ma un aggiornamento del canone. Una sorta di sublimazione di scosse telluriche dentro il tessuto connettivo del paese e che lui è riuscito a incorporare. Sia da destra, sia da sinistra. Una sinistra che, in ogni caso, e va detto, sbaglia quando imposta la sua azione come pura e semplice contrapposizione.

3. La sinistra identitaria, ancorata a modelli che non hanno risposta nella realtà

Leggendo un altro contributo di Alessandro Gilioli, il suo libro La diaspora (Imprimatur 2014) dedicato alla sinistra italiana, ai suoi errori e alla difficoltà di ‘diventare adulta e credibile’, emerge con amaro realismo l’avventura della lista L’Altra Europa con Tsipras, cartello elettorale per le elezioni europee che ha supportato alla guida della commissione l’attuale primo ministro greco e che raccoglieva consensi e supporto dalle aree a sinistra del Partito Democratico, da SEL in giù. Al netto di un ottimo risultato elettorale, la lista ha esaurito il suo compito poche settimane dopo. Dall’affaire Barbara Spinelli alle storiche – e a questo punto è lecito chiedersi se non siano endemiche – divisioni all’interno della sinistra italiana, adesso non resta che una miriade di formazioni atomizzate e in ‘cerca di autore’, che sognano la grande coalizione delle sinistre ma non riescono nemmeno a mettersi d’accordo su un’agenda programmatica comune. Secondo Gilioli l’unica soluzione è partire da temi condivisi che possano far cominciare un lavoro che non va raccolto né oggi, né domani, né dopodomani, ma molto più in là. E, soprattutto, smettere di dirsi di sinistra e cominciare a fare cose di sinistra. L’idea è interessante proprio perché Podemos risolve la questione dicendo – come il Movimento 5 Stelle in Italia – di non essere né di destra né di sinistra, ma comportandosi come un soggetto politico di sinistra, dai riferimenti culturali (Gramsci, Pasolini, Laclau, Stiglitz) all’agenda politica (reddito minimo, ambientalismo, politiche di welfare, tutela dei beni comuni). Forse il difetto della sinistra italiana è quello di non essere una forza di azione, ovvero in grado di generare entusiasmo e partecipazione diffusa attorno a dei punti di programma da far crescere e portare nel dibattito pubblico, ma di reazione, cioè una forza disorganizzata che reagisce solo ed esclusivamente sulla base delle contrapposizioni del momento. E in questo, il ruolo di Matteo Renzi come nuovo protagonista dello spazio pubblico è fondamentale. La sinistra italiana pecca – ed era l’errore da evitare anche secondo Ilvo Diamanti – di eccesso di contrapposizione: non è più importante costruire un programma, ma attaccare il programma dell’altro, dicendo che noi siamo più di sinistra di lui. Come se questo punto diventasse un motivo nobilitante ‘in sé’. Usare la parola ‘sinistra’ come panacea di tutti i mali contribuisce, di fatto, a disinnescare il suo significato storico e, quindi, a renderla inoffensiva. Un’etichetta buona per riconoscersi ma non per configurare un’azione propria, semmai una risposta ‘identitaria’ in base a quello che fanno gli altri. Quando sei subalterno, di fatto, hai già perso. Rifiutando di costruire la tua agenda, anche prendendoti il tuo tempo, cercando una comunione d’intenti, e cercando di creare l’egemonia culturale nel tessuno connettivo del paese, hai già perso.

4. Il ruolo di Internet e la retorica della cittadinanza informata.

Uno degli aspetti più controversi della frase di Falcon da cui è partita tutta questa riflessione è il ruolo di Internet come creatore di cittadinanza attiva e consapevole in grado di andare oltre gli aspetti più controversi dell’informazione monopolizzata dai media tradizionali. Ora come ora è un’esagerazione che non tiene, strumentalmente, conto degli aspetti controversi di Internet. Dalla filter bubble (per cui gli algoritmi dei social network ci fanno leggere solo contenuti simili ai nostri) passando alla logica del Far West per cui Internet diventa solo uno sfogatoio virtuale dei bassi istinti e non un virtuoso costruttore di dialogo e consapevolezza. Senza dimenticare il rischio di disinformazione altissimo e la facilità di condividere bufale o tesi fuorvianti che alimentano fantasiose ipotesi di complotto. Internet non è la soluzione ai mali del mondo, ma è sicuramente uno strumento che offre infinite possibilità e, nonostante adesso il suo uso sia molto ‘primitivo’, soprattutto per quanto riguarda gli utenti, non può che essere un territorio da esplorare. Podemos fa bene a continuare sull’aspetto della discussione online integrata alla politica di consenso per le strade. Così come è indubbio che il partito italiano che più di tutti ha abbracciato la retorica della rete, il Movimento 5 Stelle, è spesso schiavo di questo uso ‘primitivo’ del mezzo, che diventa un megafono su altri schermi. Niente di più che una televisione su computer, dove non puoi controllare il messaggio, non puoi criticarlo, non puoi agire su di lui. Le possibilità, però, ci sono. E un grande investimento culturale nell’alfabetismo digitale e nell’educazione digitale potrebbe essere uno degli sforzi più lungimiranti che un paese può fare in questo momento. Ora, se vogliamo, la politica ha sfruttato l’analfabetismo digitale e i social network ci mostrano uno spaccato di società che di Internet vede soprattutto le capacità di propagazione di ‘qualsiasi’ messaggio, e non le possibilità di connettere le conoscenze e creare discussione. La retorica di Internet come luogo dell’utopia possibile è ancora molto efficace. Ma nonostante adesso gli sforzi empirici sembrino dimostrare il parziale fallimento di questa retorica, i dati sull’uso, sulle possibilità e sulle prospettive di un Internet costruttore di cittadinanza e comunità (solo per restare nella bibliografia recente, leggere Luca De Biase, Homo Pluralis e Jeremy Rifkin, La società a costo marginale zero) suggeriscono di investire oggi per raccogliere fra molto tempo. Anche in questo caso, fare la sinistra con Internet si può. Non deve essere l’unica via, ma è una strada che si deve percorrere. E, soprattutto, è una strada lunga. E bisogna esserne consapevoli.

Quindi, noi, possiamo? Possiamo, certo. Perché credere nell’immutabilità delle forme non porta da nessuna parte. Solo bisogna essere consapevoli che non si cambiano comportamenti, antropologie e culture radicate da anni, decenni, in pochi mesi. Non si rovescia il campo culturale consolidato dopo attenti lavori di bombardamenti mediatici, riconfigurazione del valori e delle estetiche, con una semplice operazione enunciativa. Non si sciolgono nodi e abitudini ormai diventati costume con un colpo di spugna. Non crei il nuovo spazio del dibattito con la buona volontà se da anni è stata delegittimata l’idea del confronto e della costruzione condivisa. Non crei la comunità politica se ormai è entrato nell’immaginario la figura dell’egoismo personale come motore della crescita collettiva. Insomma, per rifare la sinistra bisogna prima di tutto riconfigurare l’idea di cosa vuol dire essere di sinistra oggi (e non lo dico io, lo diceva Ulrich Beck). E, sopratutto, bisogna smettere di guardare agli altri paesi con nostalgica rassegnazione limitandosi a prendere l’esempio e portarlo da noi. Il papa straniero, in politica, non funziona. Ogni paese ha delle specificità fortissime, delle peculiarità che sono solo e soltanto sue. E le risposte devono essere commisurate ai bisogni e alle emergenze. Soprattutto attraverso delle pratiche e delle modalità innovative, sì, ma non ‘nuoviste’. E che, più che altro, siano in linea con quanto succede nel paese di riferimento. Podemos e Syriza in Italia non funzionerebbero perché le storie sono troppo diverse. Ma ogni paese ha la sua storia. E ogni paese ha e deve avere la sua sinistra.

@hamiltonsantia

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