Partiti e politici
No, il Pd non ha in mano l’Italia
Nel tortuoso scacchiere delle elezioni italiane, ormai da decenni, è molto facile confondere le tappe intermedie con il risultato finale. La frammentazione degli appuntamenti elettorali è così ampia che ogni anno, magari più volte l’anno, ogni schieramento, partito, leader vero o immaginario ha l’occasione di pesarsi, misurarsi, utilizzare una crescita anche ridotta del proprio spazio in un territorio tutto sommato marginale come prova della propria “forza” politica. Se questo succede spesso per elezioni amministrative realmente periferiche, è inutile aspettarsi che non capiti quando a votare – è la storia di oggi – sono andate le prime cinque città italiane. Non è pensabile – e nemmeno sarebbe giusto – che un appuntamento così importante non assumesse un peso politico e un rilievo nazionale.
In attesa di dati definitivi che si accumulano col contagocce sul sito del ministero dell’Interno, tuttavia, vale la pena di proiettare sui giorni che verranno alcune riflessioni che già contraddicono le comprensibili e scontate propagande. I primi commenti che provengono dal Pd sono improntati a una giusta soddisfazione, che non deve però sconfinare nella perdita del senso della realtà. Sentire Enrico Letta che a spoglio in corso afferma “siamo tornati in sintonia col paese”, ad esempio, sembrano proprio ripercorrere il sentiero dell’incomprensione di quel paese con cui si vorrebbe essere in sintonia. Proviamo a capire perché.
Il segretario del Pd, appena rieletto a deputato alle suppletive a Siena, storicamente ultra-amichevole nei confronti del centrosinistra, basa la sua soddisfazione su pochi dati parziali e pensa, quasi sicuramente, alle grandi città. Pensa a Milano, la città più ricca e dinamica d’Italia, in cui il trionfo di Beppe Sala al primo turno è ancora una volta accentuato dal voto ultrafavorevole dei quartieri più centrali (alla nostra città e ai dati del voto dedicheremo non appena possibile un approfondimento). Pensa a Napoli, in cui il candidato Manfredi dilaga al primo turno sostenuto dall’alleanza coi 5 Stelle – in crisi di identità e con un percorso tutto da capire davanti – che per Letta resta la stella polare, almeno fino a prova contraria. Pensa a Torino, dove il centrosinistra con Lo Russo si trova a sorpresa davanti a tutti. Pensa alla scontata vittoria di Matteo Lepore a Bologna, mentre non sa ancora quanto può pensare a Roma, dove l’approdo al ballottaggio di Gualtieri è stato a un certo punto anche messo in dubbio, ma alla fine sembra certo, e la partita per riconquistare la capitale è aperta.
Non pensa invece a tanti comuni piccoli e medi che storicamente sono meno amichevoli, per il centrosinistra, e i cui risultati andranno comunque analizzati con attenzione. Ma non può dimenticare, in ogni caso, che il voto delle grandi città che sanciscono la vittoria del centrosinistra non è davvero rappresentativo del paese, o dell’essere in sintonia con lo stesso. Anzitutto per ragioni statistiche, visto che nelle principali città che hanno votato oggi risiede circa il 10% degli aventi diritto al voto. Ma anche, e soprattutto, per ragioni economiche e sociali, perfino più grandi delle specifiche differenze che distanziano le grandi città italiane dalle province e dalle zone interne. È ormai assodato ed evidente, in tutto il mondo, che quello che succede nelle città è sempre meno vicino a quanto accade nella pancia del paese. L’Italia, ormai da anni, non fa alcuna eccezione a questa tendenza globale, che abbiamo visto all’opera in occasione dei principali appuntamenti globali – dalla Brexit alle elezioni americane – e nazionali. E se è vero che il centrodestra non ha saputo esprimere candidature all’altezza, dimostrando un impressionante pressapochismo nella costruzione di una classe dirigente nonostante viva anni di ampio consenso popolare, non si può dimenticare che – appunto – quel consenso esiste.
Come correttamente e ampiamente anticipato da Paolo Natale su queste colonne, insomma, la vittoria nelle grandi città non è un antipasto di vittoria nazionale ma, piuttosto, il ritorno del centrosinistra italiano al governo di città che storicamente erano sempre state favorevoli. È infatti questo il caso di Napoli e di Torino, che prima di diverse manifestazioni di rotture populiste erano sempre state governate dal centrosinistra almeno dall’inizio della Seconda Repubblica, e varrebbe la pena di tenerlo a mente, quando si commentano con entusiasmo successi che – se riportati su uno schema temporale “più lungo” sembrano molto più conferma della regola, che non eccezioni. Infine, sempre per provare a mettere in prospettiva i fatti, vale la pena di pensare ai dati di affluenza. Bassissima ovunque, sotto il 50% proprio nei grandi centri, colpisce in particolare il dato di Milano, una città storicamente pronta a mobilitarsi per il voto. Ma è ancora più bassa la partecipazione in quella Siena che, dopo decenni di scandali e disastri targati da sinistra e Mps, dove l’affluenza arriva a un misero 35%. Prima di dare per scontata la fine della stagione populista, vale la pena di mettere in fila tutti questi dati, e ricordarsi di un passato così recente da essere ancora maggioritario in parlamento e – chissà – forse nel paese.
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