Partiti e politici

Economisti e politici, da ciascuno secondo le sue capacità

1 Aprile 2016

Quasi tutti i “consigli” degli economisti ai governi (esagero ma non troppo) derivano da due teoremi molto importanti che fanno parte del bagaglio di ciascun economista e si chiamano Primo e Secondo Teorema dell’Economia del Benessere.

Il Primo Teorema afferma che un mercato che soddisfi certe condizioni di concorrenza perfetta arriva autonomamente, senza intervento alcuno, ad un equilibrio efficiente in senso di paretiano (la famosa mano invisibile, che non è quella di Dio).  Efficiente in senso paretiano significa che non posso migliorare ulteriormente il benessere di qualcuno senza peggiorare la condizione di qualcun altro. In parole semplici dice che la concorrenza perfetta è quella che produce il surplus più grande, la torta più grande da dividere. Non dice nulla però su come verrà divisa la torta.  Da questo teorema discendono tutti gli argomenti a favore del libero mercato e dell’attività antitrust ad esempio.

Il Secondo Teorema afferma invece che con opportuni trasferimenti (tasse e sussidi) si può ottenere qualsiasi allocazione sulla frontiera paretiana (dalle più egualitarie a quelle più diseguali). In parole semplici ci dice che l’importante è allargare la torta e che poi possiamo dividerla in qualsiasi modo. Sospiro di sollievo,  allora gli economisti hanno un cuore.  Ma, c’è un ma, quale allocazione sia auspicabile non ce lo dice nessuno. Dipende: è una scelta politica. In aggiunta, purtroppo, tra il dire e il fare c’è di mezzo l’economia reale fatta di persone che non sono degli automi e sono ognuna diversa dall’altra e che agiscono in una società regolamentata da leggi approvate da un parlamento formato da quegli stessi esseri umani che poi operano scelte economiche individuali. Insomma il mondo reale è un gran casino e un economista non è detto che conosca il suo funzionamento, o il suo mal funzionamento.

Anzi diciamolo, ormai un economista non è tenuto a conoscerlo perché la disciplina richiede una tale specializzazione che va per forza a discapito di quella multidisciplinarietà che potrebbe fornire gli strumenti idonei  a operare scelte politiche fondate su ragionamenti economici, ma non guidate dagli stessi.

Tra una decisione di politica economica che fa crescere il PIL del 3% ma aumenta la disuguaglianza e una che lo fa crescere solo del 2,8% ma invece riduce la disuguaglianza, cosa si sceglie? Un economista potrebbe dire che è meglio la prima e poi si attueranno gli opportuni correttivi per redistribuire quella fetta in più, un politico potrebbe sapere che ora che quei meccanismi redistributivi vengono decisi e approvati sarà passato così tanto tempo che i danni sulla società causati dall’aumento della diseguaglianza saranno irreversibili.

Durante la prima lezione del mio corso di microeconomia a circa 200 diciannovenni cerco di spiegare che cos’è l’economia politica e quali strumenti mi piacerebbe che acquisissero entro la fine dell’anno. Il primo obiettivo, in apparenza semplice ma in realtà molto ambizioso, è che siano in grado di recepire le notizie economiche (in senso molto ampio) in maniera più consapevole. Potranno anche non diventare governatori di una banca centrale, presidenti dell’antitrust o ministri dell’economia ma almeno saranno cittadini ed elettori più consapevoli.

Nella seconda metà della prima lezione poi spiego loro la differenza tra economia positiva ed economia normativa, e subito mi parte il pippone di 5 minuti sul ruolo di politici ed economisti che li lascia un po’ perplessi.

L’economia positiva cerca, tramite l’uso di modelli matematici,  di descrivere il funzionamento dei mercati, basandosi sulle scelte degli individui o delle imprese, spiega le relazioni causali e prova a fare analisi predittive. Ci dice ad esempio che se aumenta il prezzo di un bene tipicamente la domanda di quel bene diminuirà e che aumenterà quella dei beni sostituti di quel bene. Ci dice quali possono essere le conseguenze della riduzione di un dazio sull’importazione di un bene, sia sul mercato del prodotto che su quelli dei fattori che sono necessari per produrlo. Cerca di utilizzare i dati disponibili per capire le cause di un fenomeno, o gli effetti di una scelta di politica economica. Può provare a prevedere con gli strumenti che ha cosa succederà, ma lo farà sempre basandosi sul passato e su schemi che hanno (forse) funzionato fino ad ora. E può sbagliare.

L’economia normativa invece esprime giudizi di valore sulle situazioni descritte dall’economia positiva. Lo fa, ad esempio,  scegliendo una funzione di  benessere sociale e verificando quale situazione di equilibrio la massimizza.  Il problema è che non esiste una funzione di benessere sociale di per sé migliore delle altre. La decisione di sceglierne una in particolare è una scelta politica.  Posso adottare una funzione che mi dice che voglio massimizzare il PIL di una nazione, posso scegliere una funzione che vuole massimizzare il reddito del 10% più ricco, posso scegliere una funzione che minimizza il numero di cittadini al di sotto della soglia di povertà e le scelte economiche che ne conseguono saranno molto diverse. G.W. Bush con le sue detrazioni fiscali ha arricchito il 10% più ricco e se quella era la sua funzione obiettivo ha fatto bene,  un politico che vuole minimizzare il numero di cittadini sotto la soglia di povertà introdurrà un reddito minimo di cittadinanza. Siccome, tipicamente, le risorse sono scarse non si può fare tutto e bisogna scegliere tra le varie opzioni di policy. Se introduco il reddito minimo avrò minore disuguaglianza e probabilmente una maggiore coesione sociale mentre se introduco delle detrazioni fiscali questi ricconi investiranno di più e potenzialmente il PIL aumenterà.  Nessuna di queste due scelte è universalmente ritenuta migliore, chi deve scegliere secondo me è un politico. Un politico che sceglie in base ad una visione e ad una missione di governo, che spiega e motiva agli elettori e che poi verrà o meno premiato al momento del voto dai cittadini. Ne consegue che le decisioni che prenderebbe un economista non sono necessariamente quelle che prenderebbe un “buon” politico.

Abbiamo quindi bisogno di politici con una maggiore cultura economica e che di conseguenza siano in grado di recepire con maggior competenza le analisi degli economisti e di economisti con maggiore consapevolezza del loro ruolo e di quello che il loro mestiere e il loro bagaglio di strumenti li mette in condizione  di fare. Questo permetterebbe agli economisti di non venir additati come la peggior categoria di incapaci affamatori di popoli al servizio del capitale e avremmo anche dei politici più accountable e responsabili che farebbero davvero onore al lavoro che fanno.

Quando arrivai ad Oxford, fresca fresca del mio PhD in microeconomia, rimasi sconcertata dall’assenza di un corso di laurea in Economics e stupita dal fatto che il fiore all’occhiello fosse il BA in PPE ovvero Philosophy, Politics and Economics.  Secondo la prestigiosa istituzione britannica il corso doveva formare politici e giornalisti altamente competenti. Allora mi meravigliai della scarsa quantità di economia che veniva insegnata, quasi 15 anni dopo apprezzo la lungimiranza e la visione e vorrei tanto essere rappresentata e governata da qualcuno di quei laureati.

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