Partiti e politici
È tempo di semipresidenzialismo di fatto… o di diritto?
Dopo mesi di dibattiti, retroscena e fiumi di inchiostro – tutti sistematicamente inutili, come ampiamente prevedibile, giacché le trattative sono ancora in alto mare – ci stiamo finalmente avviando al 24 gennaio, data in cui il Presidente della Camera Roberto Fico ha convocato deputati, senatori e delegati regionali per l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Ma, come si suol dire, l’attesa del Quirinale è essa stessa il Quirinale, e quindi godiamoci fino all’ultimo secondo questa gustosa fase di trame e colloqui, magari fingendo che all’opera ci siano Cavour o Kissinger, così, giusto per conferire un minimo di tono alla faccenda.
L’unico punto fermo è che Sergio Mattarella ha detto, ridetto e stradetto che di secondo mandato non vuole nemmeno sentire parlare. Di tutta risposta, su che nome si dovrebbe convergere secondo Matteo Orfini? Naturalmente quello di Sergio Mattarella, pure contro la sua volontà, perché unico garante dell’equilibrio istituzionale in questa fase estremamente delicata. Il tutto ovviamente sempre con Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio, per analoghe ragioni di stabilità. E questo dà l’idea di quanto fermi siano i punti fermi in questa fase.
Per capire quale sarebbe la soluzione ideale per il Paese, quando non l’unica ragionevolmente percorribile, è sufficiente ricordare alcuni dei motivi che hanno portato Mario Draghi a Palazzo Chigi nel febbraio dello scorso anno. Da un lato, Draghi rappresenta per gli Stati Uniti la garanzia della nostra linea atlantista, cosa che in effetti dovrebbe essere vagamente data per buona, se non altro ricordando i 13mila soldati americani di stanza nel nostro Paese, ma che evidentemente necessitava di una rinfrescata, soprattutto dal momento che nel recente passato si sono visti simpatici mattacchioni (leggi Governo Conte I) mettersi a firmare accordi con la Cina sulla nuova Via della Seta nemmeno fossero figurine allo stadio. Dall’altro, Draghi è garanzia dell’affidabilità italiana in merito al buon uso dei fondi del NextGenerationEU, soprattutto, come ovvio, agli occhi della Germania che ha messo a disposizione la propria tripla A per l’emissione dei bond europei dei quali siamo in definitiva i maggiori beneficiari. Il solo pensiero a quello che stava succedendo l’anno scorso di questi tempi, in cui a Palazzo Chigi si teorizzavano task force pletoriche nel marasma più italico possibile, il tutto naturalmente nel completo sconcerto delle cancellerie d’Oltralpe, dovrebbe essere sufficiente a dare un’idea del quadro.
In questo contesto, con il flusso dei fondi del PNRR già avviato, ma con una lunga strada ancora da percorrere, pensare di liquidare la figura di Mario Draghi, magari sull’onda del record di incremento del PIL nel 2021, è semplicemente folle. Ben inteso: che una persona, una singola persona, pur eccellente, possa impattare sulla traiettoria strutturale di una collettività è notoriamente esercizio abbastanza ardito, per la disperazione degli italiani, sempre prontissimi ad individuare il salvatore, cui affidare onori ed oneri, per poi scaricarlo una volta appurato che di salvatore e non di Salvatore trattavasi. Per dire, nemmeno Draghi potrebbe rendere l’Italia una potenza nucleare o un posto in cui gli automobilisti si fermano ai passaggi pedonali, per citare due esempi agli antipodi ma ugualmente significativi. Pur tuttavia, ci sono persone e persone, e Draghi appartiene certamente alla categoria di quelle che è meglio avere che non avere.
Anzi proprio per questo, in questi mesi i partiti si sono premurati di far sapere che Draghi deve andare avanti con l’azione di governo. Il sospetto che tutto ciò venga detto solo perché essi, con Draghi al Colle, temono di proseguire nella condizione di più o meno esplicito commissariamento verificatosi in questi mesi è forte, ma tant’è. Ora, avere ancora Mario Draghi alla guida dell’esecutivo sarebbe sicuramente un’eccellente notizia, peccato che il governo durerebbe al massimo un altro anno e che, soprattutto, in queste settimane si stiano avendo assaggi molto chiari di quella che sarebbe verosimilmente la navigazione dell’esecutivo, ossia un calvario segnato da incontrollabili appetiti e convulsioni pre-elettorali dei partiti (tant’è che la disponibilità del premier a proseguire non sarebbe per nulla scontata). Mario Draghi deve dunque traslocare verso il Quirinale, dove continuerebbe a svolgere il proprio ruolo di garante per i prossimi sette anni, al riparo dai marosi di crisi di governo e affini.
E per il governo cosa succederebbe? Nei mesi scorsi hanno suscitato un ampio dibattito le parole di Giancarlo Giorgetti, che teorizzava un regime di semipresidenzialismo di fatto in cui Mario Draghi dal Quirinale potrebbe guidare il governo (presieduto ad esempio dagli attuali ministri Daniele Franco e Marta Cartabia), in qualche modo portando a parossismo la tendenza di una sempre maggiore incisività da parte del Colle nella politica italiana ormai in atto da almeno un decennio. Le ultime settimane suggeriscono in effetti che una tale placida transizione sarebbe poco probabile. La discussione sul governo sarebbe infatti più ampia e non si sa bene cosa ne uscirebbe. Sia come sia, in generale non ci si potrebbe aspettare chissà quali straordinari provvedimenti da parte del nuovo governo in un anno pre-elettorale. Certo, gestire con efficacia la crisi pandemica e proseguire il lavoro sul PNRR già non sarebbe poco. In generale, la priorità assoluta (dei parlamentari) pare quella di evitare le elezioni anticipate, tanto più alla luce della riforma costituzionale sulla riduzione dei componenti di Camera e Senato pur votata tra frizzi e lazzi da parte dei medesimi: tutto il resto è contorno.
In questo marasma, ci sarebbe una soluzione intrigante, che consentirebbe di salvare capra (Draghi al Quirinale) e cavoli (Draghi a capo dell’esecutivo). Avviso il lettore che ci stiamo addentrando in una dimensione onirica, non lontano dal divertissement, dalla facezia. Potremmo definirlo sogno di una notte di mezza estate o, se vogliamo, di una notte di semi inverno. Insomma, fatta questa premessa, o avvertenza, perché non procedere senza indugio ad una riforma istituzionale in senso semipresidenziale alla francese, non solo di fatto, ma pienamente di diritto?
Tecnicamente, i tempi ci sarebbero. Come ad esempio mostrato dall’esperienza del Governo Monti con l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, l’anno (abbondante) che ci separa dalla fine della legislatura è più che sufficiente per procedere con una riforma costituzionale condivisa, naturalmente approvata con la maggioranza dei due terzi delle Camere e quindi da non sottoporre al passaggio referendario. Certo, in questo caso la riforma sarebbe ben più ampia e di impatto. Ma proprio la riforma semipresidenziale che nel 1958 diede avvio alla Quinta Repubblica francese si perfezionò nel giro di pochi mesi, allor quando Michel Debré cucì la nuova costituzione su misura di Charles de Gaulle. È ben vero che ora non ci sono guerre d’Algeria in corso né colpi di Stato alle porte, per fortuna, tuttavia non è troppo ardito sostenere che la nostra Repubblica viva una fase di crisi e inconcludenza non dissimile dalla Quarta Repubblica francese. Peraltro, la nuova Costituzione francese diede e dà buona prova di sé anche in tempi meno movimentati. Si aggiunga che nulla è scolpito nella pietra e che anche allora alcuni correttivi furono introdotti in seguito. Ad esempio, inizialmente il Presidente veniva eletto da un collegio di grandi elettori, mentre l’elezione a suffragio universale sarebbe stata introdotta solo nel 1962.
Inoltre, una riforma semipresidenziale non è una assoluta novità nel panorama italiano, anzi. Il mitologico Patto della Crostata del 1997, nell’ambito della Commissione Bicamerale guidata da Massimo D’Alema, prevedeva infatti un accordo su una riforma di stampo appunto semipresidenziale, con annessa legge elettorale maggioritaria di collegio a doppio turno. Ancorché (pare) preparata dalla moglie del fido Gianni Letta, la crostata risultò tuttavia indigesta a Silvio Berlusconi, il quale nei mesi successivi rovesciò il tavolo, seppellendo il semipresidenzialismo sotto di esso.
Si tratterebbe certo di una riforma piuttosto repentina, diciamo pure ai limiti della fantascienza, o anche abbondantemente oltre, dal momento che dovrebbe essere approvata da una classe politica da cui si faticano a immaginare colpi d’ala da consegnare ai libri di storia. Di converso, bisogna pur dire che non migliore fortuna hanno avuto altre e ben più a lungo meditate riforme costituzionali. Paradossalmente, le uniche riforme sostanziali che hanno visto la luce (quella sul Titolo V del 2001 e quella su taglio dei parlamentari del 2020) sono anche quelle che sarebbe stato meglio fossero rimaste in soffitta. A vent’anni di distanza, il “regionalismo” della riforma del 2001 e dei sedicenti Governatori mostra tutti i suoi limiti (ultima in ordine di tempo, la querelle di questi giorni tra Regioni e Governo sulla riapertura delle scuole). Sulla riforma recentemente approvata ci sarebbe da stendere un velo pietoso se soltanto non ci fosse da piangere. La riduzione del numero di parlamentari era certamente auspicabile, ma da inserire nel contesto di una riforma che affrontasse la vera questione, ossia bicameralismo paritario, e segnatamente i poteri del Senato. In questo caso si è proceduto unicamente al “taglio delle poltrone”, offerto in scalpo al popolo festante nemmeno fosse la pioggia purificatrice del Manzoni, quando in realtà era ed è nulla più che il monumento alla povertà programmatica e culturale di una stagione (come sempre poi non mancano gli aspetti gustosi, avendo assistito nei giorni scorsi al licenziamento da parte della Camera di una Legge di Stabilità che nemmeno aveva avuto il tempo di leggere, alla faccia del bicameralismo). Peraltro, credo non sia solo esercizio di italica diffidenza il prevedere che il minor numero di parlamentari sarà prontamente compensato da un nutrito stuolo di consulenti e tecnici (magari pure pescati tra i molti parlamentari che diventeranno ex), che saranno assunti per far fronte a – già me lo vedo – “l’insostenibile carico di lavoro che devono sopportare le commissioni parlamentari ora a ranghi ridotti”. E qui non possono non emergere rimpianti per come Matteo Renzi si suicidò nel 2016, perdendo un referendum su una riforma che nei mesi precedenti aveva toccato vette altissime di consenso, e che lui volle politicizzare e rendere un referendum su di sé, per giunta mortificando la riforma stessa vendendola primariamente come, aridaje, taglio delle poltrone.
Ad ogni modo, quali sarebbero i pregi dell’introduzione del semipresidenzialismo? In primo luogo, una guida esecutiva eletta per cinque anni e non sfiduciabile garantirebbe all’Italia quella stabilità che agogna da decenni, perlomeno per quanto riguarda l’azione di governo. L’elezione diretta conferirebbe inoltre quella legittimazione popolare che sempre più spesso affiora nel dibattito pubblico come questione delicata. Infatti, se nei primi vent’anni della Seconda Repubblica si aveva nei fatti un’elezione diretta del Presidente del Consiglio (che poi in sostanza erano sempre o Berlusconi o Prodi), questo non si è mai verificato nell’ultimo decennio, e anzi quattro degli ultimi sei premier (Monti, Renzi, Conte, Draghi) non erano nemmeno parlamentari (al netto della nomina di Monti a senatore a vita un minuto prima di andare a Palazzo Chigi). Ricordare che il Presidente del Consiglio è nominato dal Presidente della Repubblica, e non eletto, è formalmente ineccepibile, ma il punto sostanziale resta. Infine, una guida sottratta al bailamme quotidiano potrebbe finalmente dare un respiro di lungo termine alla propria Presidenza, occuparsi di “massimi sistemi” nel senso più alto e nobile. Potrebbe ad esempio dedicarsi a demografia e pedagogia, priorità assolute per il nostro Paese, ma vocaboli praticamente ignoti nel dibattito pubblico. Potrebbe in sintesi portare un po’ di futuro in uno scenario politico drammaticamente condannato al “presentismo”.
Ovviamente i partiti potrebbero non essere molto contenti di vedersi sottratto un tale potere da sotto il naso, per usare un eufemismo. Ma essi, vero surrogato per decenni di uno Stato debole, sono ora in una fase di crisi profondissima, che è sotto gli occhi di tutti. Certo, i partiti sono ovunque, nominano gente e distribuiscono prebende qua e là, ma dov’è l’idea di Paese, l’idea di un percorso, di un destino? Sempre per rimanere in tema, più volte da destra è emersa la proposta di virare verso una Repubblica Presidenziale. Ma al netto della pur condivisibile intenzione di dare maggiore legittimazione popolare al Presidente, già discussa sopra, questa è sempre apparsa una proposta come un’altra, lanciata per fare titolo, non tanto diversa da un’uscita sull’immigrazione, sul reddito di cittadinanza o sulle banche, e non già una matura riflessione sull’assetto istituzionale ideale per il nostro Paese su cui aprire reale dibattito. Realizzare una riforma semipresidenziale potrebbe anzi incoraggiare un processo di riforma dei partiti stessi, che sarebbero inevitabilmente e finalmente obbligati a sviluppare una vera progettualità da proporre all’elettorato (nonché, si spera, anche ad avviare un processo di selezione di classe dirigente degna di questo nome).
Leggo già le obiezioni a tale proposta, certo in gran numero non prive di fondamento. Ma sfacciatamente le salto a piè pari e mi limito a scrutare le più divertenti. Ad esempio, se ben ho compreso la comunicazione salviniana, dal segretario delle Lega potrei aspettarmi qualcosa del tipo: “Ma quale semipresidenzialismo? A me non piacciono le cose fatte a metà! Il presidenzialismo me lo faccio per intero la prossima legislatura!” Obiezione che suonerebbe anche credibile, se non fosse che per esempio il semi-presidente francese ha poteri ben più ampi (quasi monarchici, è stato ben detto da altri) di quanti ne abbia l’intero-presidente americano.
Comunque, riassumendo: Presidenziali nel marzo 2023 e Politiche in maggio (o chiamiamole pure Legislative a questo punto). Non suona bene?
Come arrivarci? Certamente se per caso si materializzasse la linea Orfini, ci sarebbero le condizioni “ideali”. La seconda presidenza Mattarella sarebbe infatti più o meno fatalmente destinata ad essere ad interim, condizione perfetta per giungere ad una cesura istituzionale. Draghi rimarrebbe a Palazzo Chigi in attesa delle elezioni Presidenziali, che in pieno delirio già prevedo vinte 60% a 40% al ballottaggio contro Giorgia Meloni. Forse un pelo più problematico (come se giù tutto questo mio castello non lo fosse) sarebbe se Mario Draghi a fine mese fosse nel frattempo eletto Presidente della Repubblica: sarebbe certamente più delicato fare campagna elettorale dal Quirinale… ma in questo articolo vale tutto.
Sia come sia, è ormai chiaro come qui si sia contribuito a produrre parte dell’inutile inchiostro di cui ci si lamentava in cima a questo articolo. Perciò: che si elegga Mario Draghi al Colle, a scanso di ogni maggior guaio. E poi… e poi ci affideremo come sempre a Tiziana Rivale, magari sperando più prosaicamente che la prossima legislatura sia, non solo a parole come sempre negli ultimi quarant’anni, davvero costituente.
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