Partiti e politici
E se sugli “psicofarmaci” Salvini avesse ragione?
Sono ore febbrili, queste, in Italia. Si attende un governo e si attende un governo espressione delle forze – populiste, popolari, sovraniste, antisistema (chi più ne ha, più ne metta) – che, lo scorso 4 marzo, sono state votate con convinzione da una ampia maggioranza di italiani.
Non entro nel merito di giudizi di valore su contratto, possibili incongruenze con quanto detto nei mesi scorsi da questo o da quello. Se devo dirla tutta, avendo fiducia nella democrazia e nel voto popolare, penso che la nascita di un governo, dentro a una cornice indubbiamente pacifica, sia un bene.
Mi voglio soffermare invece su una cosa che mi ha colpito molto detta ieri da Matteo Salvini all’uscita dal Quirinale, ossia il riferimento preoccupato al fatto che – causa di una serie di effetti dovuti alla precarizzazione del lavoro (e quindi dell’esistenza) – vi sia una pesante impennata dell’uso di psicofarmaci tra gli italiani.
Come immaginavo questo accostamento – per sua natura sintetico e semplificatore – tra la funzione di Governo e quella della “sedazione chimica” di un disagio psichico, è stata oggetto di scherno e in taluni casi di repulsione, da parte di molti osservatori. Siano essi politici o specialisti in materia.
Io, che non sono nè l’uno, nè l’altro, penso invece che Salvini ponendo – con la sua ruvidezza – quel tema non solo abbia ragione, ma abbia anche posto un tema politico centrale. E, spiace dirlo, su un tema che avrebbe dovuto essere centrale per delle sensibilità “di sinistra”.
Per argomentare ciò mi riferisco al già citato, fantastico, saggio di Mark Fisher di cui ho già parlato qui.
Nel capitolo”Non fare entrare niente nella tua vita” Fisher, utilizza il personaggio di Neil McCauley, il boss del crimine del film Heat (interpretato da Robert De Niro), come pretesto per descrivere la condizione del lavoratore contemporaneo. Infatti
“[…] l’ethos abbracciato da McCauley è lo stesso che Richard Sennet analizza in L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, il fondamentale studio sui cambiamenti affettivi causati dalla riorganizzazione postfordista del lavoro.. […] In un’involontaria eco della battuta che McCauley rivolge ad Hanna (“Come pretendi di riuscire a tenerti una moglie?”) Sennet sottolinea l’intollerabile stress che sulle dinamiche familiari provoca una tale condizione di instabilità permanente. I valori da cui la vita dipende – riconoscenza, fiducia, impegno – sono precisamente gli stessi che il nuovo capitalismo ritiene obsoleti.”
Ma Fisher non si ferma qui e, citando ancora Sennet e Marazzi (io aggiungerei l’Han di “Psicopolitica” e “Nello sciame“), mostra come “lo sgretolamento del modello fondato sul lavoro stabile sia stato in parte motivato dai lavoratori stessi“ che non ne volevano più sapere – giustamente mi verrebbe da dire – di stare una vita chiusi dentro una fabbrica, facendo lavori ripetitivi. Questo fatto, dirompente nei processi produttivi, nelle relazioni sindacali e – per l’appunto – nella sfera intima delle persone ha portato al risultato che
“Oggi l’orizzonte dell’antagonismo non sta più all’esterno, vale a dire nel confronto tra blocchi sociali; è semmai tutto interno alla psicologia del lavoratore, che da una parte resta coinvolto nel vecchio conflitto tra classi, mentre dall’altra è interessato a massimizzare i profitti dei propri investimenti in vista del fondo pensione:”
Ecco qui, dunque, il risultato: il conflitto che si scatena “dentro” agli individui, produce vittime; a supporto di ciò nel testo si citano una serie di dati di studi inglesi che hanno dimostrato la progressiva crescita di casi di morbilità psichiatrica dal dopoguerra a oggi, soprattutto concentrate in Paesi in cui vigono settarie dottrine politico/economiche neoliberali.
Ciò perché, oltre alla pervasiva dimensione autoperformante a cui il lavoratore dell’era digitale è sottoposto – in cui il lavoro occupa finanche il posto dei sogni – l’attuale società instilla anche una sorta di germe della permanente delusione: da un lato alimentando l’illusione che chiunque “ce la possa fare” a diventare come Mark Zuckerberg (o come Chiara Ferragni – sic – per citare un esempio italiano) e dall’altro, numeri alla mano, frustrando nella realtà tale possibilità. Oggi, infatti, per una persona nata negli anni ’70 è ben più difficile risalire la scala sociale di quanto non lo fosse per una nata negli anni ’50. E, a occhio, sarà terribilmente ancora più complicato per chi è nato dopo.
A questo punto, dopo uno strutturato ragionamento suffragato da dati, Fisher arriva pressoché a dire quello che – con una battuta quindi per nulla superficiale – ha di fatto accennato Salvini, affermando che
“l’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. […] rinforza la spinta in direzione di un’individualizzazione atomizzata e […] crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti.”
Per Fisher, dunque, “ripoliticizzare la malattia mentale è un compito urgente per qualsiasi sinistra che voglia lanciare una sfida al realismo capitalista“.
E qui, alla fine, a essere confusi – e forse bisognosi in questo caso di qualche psicofarmaco – sono quelli come me che si sentono di sinistra; perché ancora una volta Salvini ha occupato uno spazio importante. E perché iniziano ad avere il fondato dubbio che forse è vero quel che dicono molti: ossia che i confini tra destra e sinistra, come li abbiamo conosciuti sino a oggi, non sono così più così netti.
@Alemagion
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