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Dunque, Matteo Renzi, i social media sono importanti o no?

18 Aprile 2016

La prima prova – la più facile – è stata superata da Renzi senza troppa fatica. Il referendum inutile, scioccamente trasformato dalla variegata opposizione al governo in una sorta di voto di sfiducia extraparlamentare, non è arrivato nemmeno a un terzo degli aventi diritto. Che non sono pochi, beninteso. Le due prove successive, le amministrative tra meno di due mesi e infine il referendum confermativo di ottobre sulla riforma costituzionale, potrebbero rivelarsi assai più dure e, fossimo in Renzi, non canteremmo vittoria troppo presto, ma soprattutto ci asterremmo dal maramaldeggiare sugli sconfitti.

Il discorso di ieri sera, ad urne appena chiuse, poteva essere un discorso conciliatorio, di basso profilo, e in parte lo è stato, centrato sulla sostanza delle politiche energetiche e sul “bene del Paese”, pur tra qualche inesattezza ed omissione – la presunta impossibilità dell’accorpare referendum e amministrative, le solite sparate tipiche del “bomba”, dalle ventimila “colonnine elettriche” da installare all’Italia che torna leader in Europa – e un ceffone a mano ben distesa a Michele Emiliano, novello Fieramosca (o Brancaleone) distintosi in questi giorni in una serie di uscite scomposte, condivise prontamente sul suo profilo twitter.

Certo, occorre una ragguardevole faccia di…bronzo per stigmatizzare i politici che «vivono su Twitter o su Facebook» se di quei media si è fino a ieri dichiarata la centralità e se su di essi si è in qualche modo costruita l’immagine politica dei rottamatori, giovani, dinamici, iperconnessi, sempre un occhio allo schermetto dello smartphone. Fa specie che, per ragioni di comodo, ora Renzi ne ridimensioni la portata, dopo che per anni ci siamo sentiti ripetere dai suoi scherani che la comunicazione in generale e quella in Rete in particolare erano fondamentali, dopo che si è implicitamente stabilita l’identità tra comunicazione politica e politica – che chi scrive faticherà sempre ad accettare.

Contrordine, compagni: «l’Italia è molto più grande di Twitter e di Facebook», dice Matteo Renzi. Ma noi lo sapevamo già: di fatto, i consensi del premier-segretario vengono soprattutto alla parte matura – in senso anagrafico, ma non solo – del cosiddetto popolo di sinistra. Un elettorato che ne ha viste tante, che bada alla sostanza, che, di fronte alla ripetuta necessità di turarsi il naso, si è da tempo dotato di pratiche metaforiche mollette e, soprattutto, che non passa le proprie giornate su Facebook e su Twitter. Della polemica sui tweet liquidatori di Francesco Nicodemo o sul #ciaone di Ernesto Carbone, questi elettori non sanno nulla, e perché dovrebbero?

Sono la mia generazione – quella dei nati tra metà ’70 e primi ’80 – e quella immediatamente successiva ad alimentare il grosso dello scambio politico sui social. Spesso precari e declassati, ma quanto più smaliziati rispetto ai codici linguistici della Rete. Non contiamo molto, apparentemente, ma sappiamo usare il gran frullatore dei social media, sappiamo cercare le informazioni e maneggiare hashtag e memi. E’ un gioco, ma serio come tutti i giochi. Twitter, coi suoi 3 o 4 milioni di utenti attivi, non sarà il Paese, ma è la grande filanda in cui il giornalismo (old and new), gli spin doctor, la stessa televisione generalista prendono ormai il loro “semilavorato”. Noi – consapevoli o meno, renziani o antirenziani, non fa differenza – contribuiamo a creare il lessico del discorso pubblico e a determinare lo stile politico della nuova classe dirigente.

Ecco perché certi scivoloni andrebbero sanzionati. Personamente, sono convinto che gran parte dei problemi relativi all’immagine arrogante del nuovo corso renziano del PD nascano dalla presenza incontrollata sui social network di un gruppetto di veri miracolati, uomini e donne senza qualità, senza merito se non quello di aver partecipato all’ascesa del segretario-premier. Com’è possibile, dopo che tanto sulla comunicazione si è investito, come Partito Democratico, dopo che dell’interazione sui social si è fatta una sorta di bandiera dei “nativi democratici”, lasciare personaggi come Ernesto Carbone liberi di scorrazzare in Twitter come dei bulletti durante la ricreazione, nel cortile di una scuola elementare?

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