Partiti e politici

Due “indecenti” come Renzi e Napolitano al servizio di un Paese migliore

15 Aprile 2016

Da noi, l’esercizio del voto ha sempre fatto leva più che sul senso dello stato sul senso di colpa, trasformando quel che sarebbe un diritto fondamentale nel dovere primario di esercitarlo, pena, un tempo, addirittura la segnalazione al casellario giudiziario – girone dantesco degli svergognati – imperituro tatuaggio sulla pelle istituzionale. Nel mondo, infatti, siamo sempre passati per quelli strani che votano molto, molto rispetto alle democrazie più libere ed edotte, che affidano le composizioni dei governi a piccole porzioni di elettori, che ovviamente decidono (anche) per tutti quelli che non si presentano alle urne. Da quelle parti, chi non vota non è inseguito da alcun pippone moraleggiante, da alcun vescovo in vena di confessione, nè da vecchi tromboni di stato che vogliono metterci il becco, è semplicemente parte di un gioco oltremodo consapevole, secondo cui chi non esercita quel diritto sa perfettamente che altri – nè “migliori” di lui, nè “peggiori” di lui – concorreranno, andando a votare, anche al suo destino. Diciamo che è una sorta di (s)fiducia costruttiva.

Per una ventina d’anni, il ventennio berlusconiano, in Italia è accaduto un fenomeno molto particolare. Il senso di colpa ha assunto forme ancora più perverse: a quelle puramente istituzionali e d’oltretevere, si è aggiunta una forma più politica, mirata, personalizzata. Il mondo della sinistra lo ha vissuto in modo aperto e conflittuale, portando sino ai suoi confini estremi la vecchia questione del diritto/dovere del voto. Si certificò, all’epoca, che chi non si presentava al seggio per votare il centro-sinistra era un cattivo cittadino perchè con quel comportamento avrebbe reso un enorme favore al Caimano, che di quel disinteresse amorale avrebbe ovviamente molto goduto. Così, la sacra autodeterminazione intellettuale veniva immolata sull’altare  dell’interesse “particulare” in una specie di indistinto calderone istituzionale in cui si agitavano ipocrisia, etica spicciola, convenienza.

Oggi, con il referendum sulle trivelle stiamo assistendo a un rovesciamento delle parti e di questo dovremmo sommamente gioire, se non fosse che esiste il fondato sospetto che non tutti gli atteggiamenti siano proprio genuini. Grazie al presidente del Consiglio e a un ex capo di stato autorevole come Giorgio Napolitano dovremmo finalmente festeggiare un funerale. Il funerale del senso di colpa che ci ha sin qui accompagnato, che ci ha trascinato alle urne per tutte le volte che non avremmo voluto, tutte le volte che davvero avremmo preferito una bella gita al mare, tutte le volte che scorrendo le liste non siamo riusciti a scovare nulla di umanamente e politicamente decente. Ecco, la “liberazione” anche un po’ indecente da queste costrizioni, ad opera di due attori così importanti, dovrebbe costituire un risarcimento doveroso per tutti gli anni di quella sofferenza coatta. E invece proviamo ancora un senso di malessere. Perché i due, in realtà, non ci hanno sciolto dalle catene, ma ci hanno neppure tanto surrettiziamente solo cambiato di prigione, sostituendo il senso di colpa con l’opportunismo politico. Nel senso che il Giovane Disinvolto non ci ha lasciati liberi di decidere secondo coscienza, come il Partito Democratico indica generalemente sui temi sensibili, non ci ha detto: siete grandi e maturi, scegliete voi autonomamente. No. Ha trovato più opportuna la via meschinetta del calcolo, quella meno nobile ma felicemente paracula, insomma ha pensato che non fossimo sufficientemente all’altezza. Per cui ci ha commissariato le coscienze.

Il Vecchio Opportunista, invece, ha fatto leva sulla sua (presunta) superiorità morale comunista, a cui noi tutti avevamo dato sponda poderosa implorando di restare al Quirinale, per dirci che il referendum è semplicemente pretestuoso, quindi inutile, solo che avendo ormai l’età delle fragilità non ha opposto fieramente il petto come avrebbe dovuto, ma ha cercato la più fanciullesca delle giustificazioni. Alla domanda secca, infatti, di Goffredo De Marchis: “Domenica va alle urne per il referendum No-Triv?”, il presidentissimo emerito non si è levato in volo, ma è rimasto con gli occhi in terra, trovando la scusa più puerile come sentendosi già in colpa: “Non so se rientro in tempo da Londra”.

Il Giovane e il Vecchio sono stati entrambi indecenti. Ognuno a suo modo, ognuno con le proprie armi. Di questa indecenza, però, potremmo un giorno goderne. Se davvero fosse genuina, se fosse davvero splendidamente istituzionale. Se servisse finalmente ad abbattere il conformismo dei diritti e dei doveri applicati al voto. Restituendoci in pieno la nostra identità di cittadini, che se decidono che al mercato delle opzioni politiche nulla li soddisfa, quella domenica resteranno serenamente sul divano di casa a guardarsi la partita. Una speranza probabilmente vana, visto il livello della battaglia.

 

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