Partiti e politici
Dopo Trump: i progressisti e il giocattolo smontato
Donald Trump ha vinto un’elezione che avrebbe dovuto perdere, anzi alla quale non avrebbe nemmeno dovuto partecipare, per la crescente follia e violenza di cui si è circondato dacché ha lasciato la presidenza e per la reiterata eversione di ogni regola democratica e di convivenza civile, perpetrata a parole da lui e a fatti dai suoi accoliti. Ciononostante, ha partecipato e ha vinto, anzi rivinto, la carica elettiva più importante del Mondo, sicuramente dell’Occidente. Non lo hanno visto tornare.
Molta responsabilità ha avuto un candidato avversario debole, “la Casellati nera” come è stata definita da un autorevole giornalista italiano, scelta di risulta dell’ennesimo disastro del Partito Democratico, che come nel 1968 con il ritiro del Presidente in carica tira fuori un vicepresidente debole e perde (con la differenza che nel 1968 la confusione era ben superiore e il candidato democratico vincente era appena stato ammazzato). Molto dipende anche dalla costante insoddisfazione dell’elettorato, che per la terza volta ha scelto di sconfessare l’amministrazione in carica, segno di un’infiammazione strutturale che nel tempo si vedrà se una nuova maggioranza repubblicana riuscirà a placare.
Mentre Trump costruisce un’amministrazione che fa rabbrividire chiunque ritenga competenza e soprattutto compostezza il sale di ogni amministratore pubblico, tocca interrogarsi su cosa ha permesso il ritorno e del leader MAGA alla casa bianca, con una maggioranza ancora più solida sebbene geograficamente e socialmente coincidente rispetto a quella del 2016. E molto ancora da capire compulsando i risultati elettorali in ogni dettaglio, come sta facendo la mia fonte prediletta per le cose americane che il professor Mario Del Pero, ma alcuni ragionamenti è già possibile fare.
Soprattutto, è già possibile ragionare attorno a quello che non ha funzionato nel campo avverso, tra i progressisti, e che è importante considerare perché non si tratta solamente di un fenomeno americano, né della provinciale trasposizione alle vicende domestiche di cose che succedono a migliaia di chilometri, ma della forma magniloquente di trend politici che da tempo, almeno dalla prima elezione di Trump sconvolgono gli ordini politici occidentali, e soprattutto il vasto campo della sinistra liberale e democratica.
La rielezione di Trump è l’onda lunga di quel fenomeno, che parte dalla Brexit e dalla sua prima vittoria elettorale, che risponde alla nozione di “vendetta dei territori che non contano” secondo la definizione di Andrés Rodriguez Pose. Bene, oggi è lecito pensare che nessuno degli elementi di marginalizzazione sociale, culturale ed economica che avevano fatto da propellente a quella prima rottura abbia avuto da parte del campo progressista la minima risposta convincente presso coloro i quali si stavano vendicando nell’urna elettorale. Anzi, la polarizzazione crescente nel discorso pubblico ha reso questa incomunicabilità tra progressisti e nuovi conservatori ancora più evidente, stagna e quotidianamente approfondita dalla reciproca derisione e mostrificazione. Da un lato il white trash populista, dall’altro le gattare woke, i due mondi si sono sempre più allontanati.
I progressisti si sono insediati con sempre maggiore forza nelle metropoli, vincitrici e qualitative ma non sempre quantitative del futuro di ogni paese occidentale, mentre agli altri tocca l’immensa provincia, che vale qualcosa appunto solo nel momento in cui separa la Gran Bretagna dall’Europa o riporta un personaggio impensabile come il prossimo presidente degli Stati Uniti alla casa bianca. Questo è un modo che vale anche per noi, non per voler scimmiottare gli Stati Uniti, ma perché ugualmente tutte le nostre città sono, più o meno bene, governate dai progressisti, mentre il resto del paese è saldamente nelle mani di conservatori che, con 1000 mila problemi oggi e ancor più domani di fronte al più che probabile isolazionismo anche commerciale dell’amministrazione repubblicana, oggi esultano sfoggiando le cravatte rosse.
Pensosi articolesse della sinistra oggi dicono giustamente che è tutto sbagliato, tutto da rifare come diceva Gino Bartali, il più delle volte però individuando l’errore in una non sufficiente radicalità con cui rivendicare temi che con tutta evidenza i territori che non contano e soprattutto i loro elettori trovano poco convincenti, se non punitivi. La scelta dei progressisti occidentali di farsi alfieri di un internazionalismo, tutto puntato sulla mitigazione degli effetti più perversi del mercato, a partire dalla sostenibilità ambientale, e dei diritti individuali in cima alla piramide di Maslow ha completamente fatto perdere di vista quello che stava succedendo sotto, e soprattutto quanto il corpo sociale meno dinamico fosse disposto a cambiare perché si doveva, senza troppe discussioni, detto con la spocchia della borghesia che sa che ha conquistato la Sinistra come i MAGA i Repubblicani americani.
La rielezione di Trump, ma anche buona parte delle vittorie elettorali della Destra sovranista degli ultimi anni (e di quelle probabili in Francia e Germania) dimostra che il “d’ora in poi” su cui i progressisti hanno costruito il loro pensiero correttivo non funziona, o meglio funziona tra quei ceti che per comprensione della realtà e arroganza di poterla trasformare decidono di mettersi a dieta solo perché gliel’ha ordinato il dottore e ce la fanno. Il resto continua a rimpiangere il lauto pasto di prima e si trova il medico pietoso che gli dice che il colesterolo è un’invenzione lo segue. In politica, come nella vendita di materassi, non vale l’incomprensione a cui possono appellarsi gli artisti: non è che non ti hanno capito, ti sei quasi sempre spiegato male.
Certo che il riscaldamento globale è un problema devastante e dobbiamo fare qualcosa, certo che i diritti individuali sono importanti, ma qui sii è smontata la società occidentale intera, e non si sa più come rimontarla. Come quei giocattoli complicati finiti nelle mani di bambini iperattivi, tutto è in pezzi, e non si ha la più pallida idea di come rimontarlo. Società, economia, geopolitica, famiglia, religione, mondo sono sparsi sul pavimento e nessuno ha la minima idea di come rimetterli insieme in modo coerente. La Destra, che è un po’ più leggera col principio di non contraddizione e con le bugie, ha una ricetta molto semplice: rimontiamo tutto come prima che si stava meglio. Keep calm and back to the eighties (quando rispetto adesso si stava veramente meglio). La sinistra guarda basita, non sa cosa fare, è tutta presa da una balcanizzazione di idee importanti ma accessorie, l’ambientalismo, i diritti individuali, che gli attivisti che ne costituiscono il corpo continuano a spingere come le uniche e necessarie. Le menti tenui dei suoi dirigenti hanno come principale riferimento l’algoritmo di Netflix, contenuti progressisti borghesi che non offendono nessuno e vanno bene per 172 paesi, ma non vincono le elezioni tra Strapaese e Stracittà.
Uscire da questo ginepraio è un casino, un po’ perché ci si è andati sempre più inoltrando, un po’ perché non è peregrino immaginare che questa rielezione di Trump segnerà una nuova ondata, ancora più diffusa e sostenuta, di consenso al populismo sovranista. Certo un’opzione sempre buona è quella dell’opossum, fingersi morti finché gli elettori si accorgeranno che il re è nudo, strafatto di ketamina e senza la minima idea di cosa fare, figuriamoci essere in grado di rispondere ai suoi bisogni. È una tecnica sperimentata, che ha funzionato con Biden, ma che le ultime elezioni hanno dimostrato essere tutt’altro che solida. Qui serve altro e, visto che la nottata sarà lunga, forse è il caso di studiare.
In primo luogo, non serve una classe dirigente che da sola si confessa, si assolve e dice quattro avemarie, qualche testa purtroppo deve saltare. Una cosa sana della democrazia americana è che chi perde e esce di scena. La Casellati nera andrà a fare l’avvocato e guadagnerà un sacco di soldi, ben per lei. Qui chi perde resta dov’è, continua a pontificare, così abbiamo una stratificazione di sconfitte e di sconfitti che non ci portano da nessuna parte.
In secondo luogo forse questi territori che si vendicano bisognerebbe veramente posto il problema di conoscerli e rappresentarsi meglio, dando a questi mal di pancia un credito meno snobistico. Non basta scriverlo, bisogna praticarlo però e costruirvi una classe dirigente nuova attorno.
La Destra sovranista predica come si è detto un ritorno all’età dell’oro, impossibile ma evidentemente abbastanza credibile, in cui le comunità stavano meglio. Prendete Make America Great Again e sostituite America con ogni Paese, regione, comune e avrete la grande promessa della Destra: riportare tutto a quando si stava meglio. Qui dentro c’è nostalgia e paura per un nuovo che obiettivamente non è così esaltante per molte persone e senso di perdita di terreno della propria comunità, sottoposta a laceranti spinte economiche, demografiche ed identitarie. Rispondere come fanno i progressisti con l’annacquamento europeo, il mutismo sulla deindustrializzazione, l’ambientalismo che non ha ancora trovato la quadra con i poveri, i diritti individuali che non danno pane, l’irenismo globale è debole, debolissimo.
Una nuova classe dirigente progressista occidentale dovrà avere il coraggio e la lungimiranza di mettere le mani nel corpo caldo, vivo, viscido e maleolente dell’infiammazione delle società occidentali, uscendo con ricette che non scopiazzano la Destra, né ripropongono la fesseria del Centro, ma rispondono allo smarrimento e alla rabbia di chi non conta, ma vota e si vendica nell’urna.
In primo luogo, evitando il florilegio di Make qualsiasi posto Great Again, bisogna essere tutti un po’ più non nazionalisti, ma certamente place conscious, seriamente attenti a tutti i livelli allo spirito del tempo, per cui si può essere europeisti e globalisti se si è anche localisti. Visto che la Destra ciancia di sovranità e italianità ma alla fine della fiera è solo provinciale, la prendano in mano i progressisti questa bandiera, che è una bandiera che a chi vede la propria comunità dissolversi evidentemente dice ancora molto.
Nell’altra mano bisognerebbe prendere saldamente l’asta della bandiera del lavoro e della produzione. L’Italia, l’Europa e per molti versi l’Occidente si stanno deindustrializzando e non si può stare zitti, o ripetere a papera la fesseria della green economy che salverà tutto e tutti. Su questo, con pochissime eccezioni, l’afonia dei progressisti è inaccettabile. Bisogna recuperare la voce e dire cose sensate, che non possono prescindere dalla difesa dell’industria e dell’impresa nazionale in grado di competere, anche rispetto alla disruptiveness digitale e della sostenibilità. Qui si gioca anche la partita dell’immigrazione, bomba politica globale che assume ben altra luce se legata alle esigenze indifferibili dell’economia e non solamente alla carità cristiana.
I temi dei diritti civili e del cambiamento climatico, che oggi sono i più identitari per i progressisti, nonché quelli che si sono più prestati con successo alla loro mostrificazione presso gli elettori che non contano, devono uscire dall’arroganza tipica degli attivisti, che vedono solo il fatto loro e quello vogliono subito e tornare ad essere “politica”, composizione di interessi e continua costruzione e modifica di road map per raggiungere gli obiettivi senza scassare tutto.
C’è tanto da fare, è difficile e bisogna cominciare subito. In compenso, la nottata non sarà breve e se ci sarà la voglia avremo tutto il tempo.
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