Partiti e politici
Dopo cinque anni cosa resta dell’entusiasmo trasmesso da Matteo Renzi?
Cinque anni fa, nel settembre del 2012, Matteo Renzi lanciava la sua candidatura alle primarie del centrosinistra per le successive elezioni politiche. Da lì partì la carriera nazionale dell’allora sindaco di Firenze. Oggi ci chiediamo cosa sia rimasto dell’entusiasmo di quella partenza. Delle idee allora espresse. Dei sogni tratteggiati nel futuro. Della visione che indicava con precisione una strada da seguire. Alla vigilia di una nuova tornata elettorale nazionale che nel 2018 ci consegnerà un nuovo Parlamento e un nuovo governo, forse, sarebbe ora di cominciare a fare i conti con questo passato per ricominciare a puntare con decisione al futuro. Se lo chiede anche Marco Esposito, ex direttore di Giornalettismo, che in un post su Facebook chiede a chi allora si mise in gioco di fianco a Renzi: “Cosa è rimasto di quell’entusiasmo? È ancora intatto? Le vostre aspettative erano diverse? Cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato in questi 5 anni di renzismo? Siete soddisfatti del risultato del vostro impegno?”
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Nel 2012 Renzi galvanizzò tantissimo perché pose l’asticella degli obiettivi da raggiungere parecchio in alto. Parlava tanto di futuro, sembrava un folle sognatore, eppure presentava quei sogni tramite un piano organico e delle idee ben costruite. Rovesciava un’ottica che si era impadronita del centrosinistra da anni: non più un centrosinistra da votare “perché gli altri erano peggio”, ma un centrosinistra da votare per quello che prometteva Didi realizzare. Niente più demonizzazione degli avversari. Sembrava incarnare quell’aria pulita e fresca che in molti attendevano, quella svolta di cui molti avevano parlato per anni. Renzi allora ti raccontava dove voleva portare il Paese, non si perdeva nel raccontare dove era arrivato con l’azione dei suoi predecessori, non faceva l’elenco dei rischi di dove sarebbe finito se a vincere fossero stati gli altri. Il problema però, come sempre, è che se provi a volare troppo vicino al sole poi rischi di bruciarti. E Renzi purtroppo ha finito per bruciarsi.
Di cose buone ne ha fatte o ha provato a farne, questo non lo si può negare. Il problema è che molte si sono rivelate come rivoluzioni a metà, solo accennate e non portate a compimento. Il Jobs Act era un buon punto di partenza per una vera e profonda riforma del mercato del lavoro, è finito per essere un punto d’arrivo dai risultati in chiaroscuro. La riforma della Pubblica Amministrazione era un altro trampolino di lancio per rimodellare la macchina pubblica, invece era farcita di errori che l’hanno portata a perdere pezzi e a fermare qualsiasi velleità ulteriore di ammodernamento. I vari bonus dati potevano essere il punto di partenza per una seria revisione del fisco e per una sua razionalizzazione, cosa che invece non si è mai fatta. La meritocrazia era sbandierata come vessillo distintivo del nuovo corso, si è finito per usare come sempre la cooptazione personale dalla propria cerchia di amicizie. Che, per carità, è comprensibile in una fase in cui hai bisogno di aver al tuo fianco le persone a te più vicine e di cui ti fidi maggiormente, ma poi il passo successivo è il contornarsi di persone che sono migliori di te, di persone che sanno tenerti testa e contraddirti, non soltanto di persone che ti sono amiche.
Per carità, ha incontrato delle resistenze, ma non poteva sperare che la strada fosse in discesa. Non poteva pensare che il suo slancio riformista venisse accolto come manna dal cielo, con tappeti rossi stesi da quelle stesse persone e corporazioni che lui prometteva di riformare, smantellare, rivoltare. Invece, guardando a posteriori, è come se avesse affrontato quelle resistenze pensando che bastasse il suo fascino e il suo carisma, e non una seria e tosta preparazione a navigare col mare grosso. Come la sciagurata idea di porre se stesso come contropartita nel dibattito sul referendum costituzionale: se perdo me ne vado, disse, trasformando di fatto quel referendum su una riforma costituzionale in un referendum su se stesso. Un comportamento completamente in antitesi con l’immagine con cui si presentò nel palcoscenico nazionale nel 2012. La sconfitta al referendum e le sue successive dimissioni dal governo e dalla segreteria di partito furono purtroppo due conseguenze di una lunga sequela di errori macroscopici, che mai mi sarei aspettato dal Renzi che conobbi nel 2012. E anche lì, anziché prendersi un po’ di distacco, un po’ di tempo per scaricare le tossine accumulate e rigenerarsi, preferì ritornare subito in sella dopo una parziale sparizione durata un mese scarso. Un ritorno segnato da un profondo livore verso un risultato referendario che lo aveva sonoramente bocciato.
Anche oggi il sul continuo rilanciarsi appare sempre più stanco e bolso. I suoi interventi sono zeppi di recriminazioni verso quelli che gli hanno impedito di fare le riforme e di lodi a tutto quello che ha fatto. È qualcosa che emoziona sempre di meno. Nel 2012 infiammava le persone perché parlava di futuro, oggi impiega la maggior parte del tempo a parlare di ciò che ha già fatto, “i nostri 1000 giorni!” e a recriminare sul passato. Dice che lui vuole parlare di futuro, ma poi in concreto non ne parla mai. Quell’entusiasmo di cinque anni fa oggi non c’è più. Un po’ era fisiologico perderlo per strada, ma qui lo si è dilapidato quasi completamente. E quel che è peggio è che oggi lui stesso non riesce più a trasmettere quell’entusiasmo, a creare quell’empatia che lo rese così popolare. Come detto l’anno prossimo si tornerà a votare, e il rischio di una nuova fragorosa sconfitta è purtroppo molto concreto.
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[Fotografia di copertina: Verona, 13/09/2012, inizio tour elettorale per le primarie del centrosinistra di Matteo Renzi. Foto Matteini/Infophoto.]
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