Partiti e politici

Direttismo e glocalismo non salveranno la democrazia

22 Ottobre 2017

Scrivo questo articolo mentre in Lombardia e Veneto si vota per un referendum consultivo che chiede maggiore autonomia. Berlusconi ha recentemente suggerito di farlo fare in tutte le regioni italiane. Il tutto a pochi giorni dalla consultazione “indipendentista” catalana e con il referendum sulla Brexit che ancora aleggia sull’opinione pubblica europea.

Questa escalation di consultazioni autonomiste in Europa non è casuale, è la conseguenza di una doppia sfida:  crisi della rappresentanza e  globalizzazione.

A partire dagli anni ’70 del Novecento, si assiste a una crescita continua del ricorso allo strumento del referendum in tutte le democrazie occidentali. La ragione principale di questo incremento è la crisi di rappresentanza dei partiti di massa. Comincia a delinearsi in quegli anni la sofferenza della democrazia rappresentativa che viviamo ancora oggi, che paradossalmente cerca di ri-legittimarsi negando se stessa, ossia ri-assegnando il potere decisionale al popolo con sempre maggiore frequenza.

Ai referendum veri e propri, possiamo aggiungere le leggi di iniziativa popolare e le numerose consultazioni online che proliferano costantemente. Tutti questi meccanismi hanno la medesima radice, quella che Sartori definiva “direttismo”, ossia la volontà politica crescente di utilizzare strumenti di democrazia diretta. I partiti non ci rappresentano più, non riescono a trovare un collante forte di tipo ideologico, valoriale o anche basato su interessi (“di classe”) in grado di fidelizzare elettori e mantenere fiducia e gradimento. La partecipazione si affievolisce, l’interesse per la politica pure. Il rapporto tra noi e la classe politica si libera, si disintermedia, si “disimpegna” con un rumore di fondo caratterizzato da sfiducia quando non indignazione. Ergo, il ceto politico è costretto a farsi sostituire sempre più frequentemente dai cittadini nel ruolo di decisore pubblico, così come è costretto a cercare soluzioni tecniche o civiche per provare a sopravvivere. In pratica, anch’esso cerca di ri-legittimarsi negando se stesso, vale a dire disconoscendo e sostituendo la politica di professione.

Uno degli aspetti più interessanti che emerge dai dati comparati è che, mediamente, la partecipazione elettorale ai referendum è tradizionalmente più bassa rispetto alle elezioni politiche. Il che smentisce una delle “ipotesi di scuola” per cui farci decidere direttamente sarebbe anche un modo per incrementare mobilitazione e partecipazione. Partecipare ha dei costi, fisici o anche solo informativi, che la “società del disimpegno” in realtà tende a non voler affrontare. “Fateci votare”, “fateci decidere” sembrano prevalentemente ottimi slogan elettorali, che mobilitano emozioni, ma non volontà.  Basti vedere i numeri delle consultazioni online, per le quali lo sforzo fisico è costituito dal premere un pulsante…

Dicevo, però, che non solo aumentano le consultazioni dirette, aumentano soprattutto quelle che chiedono maggiore autonomia o addirittura indipendenza dagli Stati nazionali. Anche questo trend ha una spiegazione che, usando tre titoli di Bauman, potremmo definire “paura liquida”, “solitudine del cittadino globale” e “voglia di comunità”. La modernità è un processo irreversibile di individualizzazione: più ci emancipiamo da religioni, ideologie, valori stabili, classi sociali, attori collettivi (patria, partiti, sindacati…), più aumentano la nostra solitudine, la nostra responsabilità e la nostra incertezza. Siamo sempre più soli, a decidere su ogni cosa e non abbiamo più risposte precostituite e scorciatoie cognitive e collettive a cui affidarci. Questa solitudine, alimentata da insicurezza, comporta inevitabilmente l’incremento delle paure, ingigantite peraltro dal “villaggio globale” (McLuhan), ossia dal bombardamento di notizie h/24 che trasformano minacce lontane in pericoli percepiti come reali e imminenti.

La reazione più naturale di fronte a queste minacce (globali) è ri-cercare una comunità (locale) che dia una sensazione di sicurezza. Ri-chiudersi in una collettività riconoscibile, fatta di propri simili, che inevitabilmente allontana e tende a catalogare come nemico lo straniero (che ridiventa hostis) o le istituzioni percepite come distanti (che diventano automaticamente poteri forti, spesso complottisti senza scrupoli, né pietà).

Dunque, ricorrere ai referendum – o in generale al direttismo – sembra essere la “naturale” soluzione di breve periodo per tamponare una perdurante crisi di legittimazione popolare.

Allo stesso modo, spingere verso soluzioni autonomistiche o indipendentistiche appare come la soluzione più rassicurante per il cittadino solitario e globalizzato.

Nella società psicologica (Lasch) il percepito conta più del reale, per cui questi due “farmaci” simbolici possono ottenere risultati positivi, nell’immediato.

Tuttavia, il pharmakon in greco è sia medicina che veleno. E questi strumenti, se nel breve sembrano curare, nel lungo periodo finiscono per alimentare importanti deficit sistemici: più si ricorre al direttismo, più si depotenzia e si delegittima la classe politica e in generale la democrazia rappresentativa; inoltre, è noto che più la società diventa complessa e globale (interdipendente), più i decisori pubblici dovrebbero essere competenti e specializzati, il che cozza palesemente con l’aumento del ricorso al voto del demos nulla sapiente (Sartori), sempre più disinformato, disorientato e disimpegnato. D’altro canto, più si spinge sull’autonomia più si frammentano comunità storicamente già “collaudate” e sedimentate. Di fatto, per quanto in crisi da tempo, lo Stato-nazione è l’ultimo concetto collettivo moderno che ancora regge sotto i colpi del postmoderno. Smantellare anch’esso non è detto che sia la soluzione migliore.

 

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