Partiti e politici

Di Maio attacca il sindacato ma il bersaglio vero è la democrazia

1 Ottobre 2017

Anni fa, in un ufficio disadorno qualunque di una sede sindacale disadorna qualunque del nord Italia, un giovane sindacalista ricevette la visita di una lavoratrice di un colosso della distribuzione commerciale. Magrissima, con due grandi occhi neri impauriti, la ragazza stringeva fra le mani, fino ad accartocciarla, una lettera di contestazione d’addebito. L’azienda l’accusava di aver messo le mani nel cassetto di una delle 24 casse dell’ipermecato dove prestava servizio. Un giorno erano spariti duecento euro. Il giorno successivo erano ricomparsi. La lavoratrice era stata sospesa dal lavoro; la sospensione è spesso anticamera di un licenziamento. La ragazza, con la testa bassa, e le mani che nervosamente si accanivano l’una contro l’altra, incalzata dal sindacalista spiegava, vincendo con fatica il pudore, che aveva seri problemi di depressione e alcolismo, prendeva farmaci che la confondevano, la facevano sentire strana e imbambolata per gran parte del giorno.

Per questi motivi, aveva chiesto di essere spostata dalle casse, ma senza risultato. A fine turno si era accorta che i conti non tornavano, che si era sbagliata a dare i resti, che quell’esercito chiassoso di clienti indifferenti e impazienti l’avevano schiacciata. Il giorno successivo, dopo aver dormito poco e nulla, aveva rimesso i soldi di tasca sua, pensando così di riparare all’errore. Purtroppo il sistema centrale di controllo non ammetteva questo tipo di aggiustamenti artigianali: segnalazione alle risorse umane (o disumane) e lettera (con sospensione cautelare) di default.

“Mi licenzieranno vero? Io non posso vivere senza questo lavoro.”

Il sindacalista, mentre scriveva la lettera di risposta, tentò di rassicurarla ma le sue parole sembravano cadere in un pozzo buio di paura e smarrimento.

La mattina successiva, come ogni mattina, il giovane sindacalista stava recandosi in ufficio, quando all’improvviso, il suo cellulare squillò. Era il compagno della ragazza che concitatamente gli comunicava la sua scomparsa.

Fu in quel momento che la macchina invertì la marcia e si diresse verso la sede della azienda. In pochi minuti  si trovò a tu per tu con il responsabile delle risorse umane:

” Avete intenzione di licenziarla? Sappiate che se la licenzierete farò un tale casino che a nulla vi serviranno più i vostri bei progetti di solidarietà in Africa o le vostre cazzate sulla filiera etica, chiaro?!”

La lavoratrice non fu licenziata, fu spostata dalle casse, e ogni natale per anni la ragazza gli fece trovare un regalo sulla scrivania, un piccolo enorme gesto di gratitudine. Lieto fine della storia.

Luigi di Maio, fresco web designato candidato premier a 5 stelle, ha sproloquiato di lavoro in una sua recente uscita pubblica, cedendo all’irresistibile tentazione di parlar male dei sindacati, arrivando a paventare un intervento diretto del potere per farli rigare dritto.

Che il sindacato debba riformarsi è indubbio, superando i limiti derivanti da una struttura che tende alla verticalizzazione, in una fase storica in cui l’orizzontalità, la trasversalità, la prossimità dovrebbero imporsi come modello, ma la politica non può e non deve minacciare di intervenire provando a ledere l’autonomia dei corpi intermedi.

Le gravi  affermazioni pronunciate da un candidato premier che del sindacato non ha mai avuto bisogno, che parla di lavoro senza mai averlo realmente conosciuto in prima persona, lanciate a caso nello stagno amplificante dell’agone mediatico, non possono  e non potranno cambiare la realtà delle cose.

In democrazia la mediazione fra interessi diversi, fra chi è forte e chi è debole, mantiene in equilibrio la società, e ostacola fino ad impedirla, la prevaricazione, piccola o grande che sia, come questa storia vera insegna. Che il giovane sindacalista sia io  o un altro, o fortunatamente tantissimi altri, poco interessa. Più interessante è rendersi conto definitivamente  che senza mediazione viene meno il basamento democratico di un paese, e questo è un tema che dovrebbe porsi oltre i sostenitori o i detrattori del ruolo delle organizzazioni di rappresentanza sindacali ma anche datoriali.

Finché comunque si verificheranno queste piccole vicende di ordinaria umanità, finché al lavoro si continuerà ostinatamente ad associare la parola dignità, il sindacato avrà senso di esistere e le parole di Di Maio, come le altre simili ascoltate in questi anni, diverranno al limite oggetto di fede acritica e ritualizzati da parte di chi ha scientemente rinunciato al faticoso esercizio del ragiornamento, come accade ad alcuni davanti alle superstizioni, tipo quella, ad esempio,  della liquefazione del sangue di San Gennaro.

 

 

 

 

 

 

 

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