Partiti e politici
Dpcm: un anno dopo
Abbiamo avuto un anno per prepararci e sembra invece che tutti facessero affidamento sul fatto che “col tempo” il problema si sarebbe risolto. Eppure l’estate doveva averci insegnato qualcosa.
Si aspettava il vaccino, ma intanto che si aspettava nessuno ha programmato i percorsi di somministrazione. Si aspettava il vaccino, ma in effetti già per quello anti influenzale c’erano stati problemi imbarazzanti. Il commento da bar di oggi è che quando ti accorgi di aver finito la pasta verso ora di pranzo e mandi qualcuno a comprarla, di solito intanto metti su l’acqua a bollire, magari la sali anche, via, che così appena arriva il pacchetto la metti a cuocere e non mangi dopo 2 ore.
Forse manca gente che compra la pasta e la mettere su, non saprei. Mangeranno tutti solo pane e prosciutto.
Il problema però non è solo legato alle politiche sanitarie e di contenimento pandemico. Il problema è – in larga parte – connesso a una classe politica incapace di ragionare se non nell’immediato. Mentre una parte della nostra classe dirigente era (e giustamente) impegnata nel risolvere le questioni più urgenti – come fin troppo bene sanno gli amministratori dei territori – una parte dell’intellighenzia politica poteva dedicarsi proficuamente alla discussione riguardo il futuro. Magari senza limitarsi a ripetere, come un mantra, “Restiamo uniti per tornare presto al mondo che conoscevamo”, dato che il mondo che conoscevamo è stato in larga parte fonte del problema.
Il ragionamento del “tutto come prima”, miope già nell’immediato, ma ancora di più se pensiamo che questa pandemia potrebbe essere replicata da qualsiasi nuovo virus decidesse di fare capolino in un remoto angolo del pianeta, riportandoci tutti in una condizione di crisi, implica l’accettazione passiva, soprattutto da parte dei partiti progressisti, di uno status quo iniquo e violento, che ormai da decenni affligge il pianeta.
In questi giorni si sente spesso ripetere che ci siamo assuefatti alla morte, al dolore, come se fosse una grande novità per gli italiani.
“Se un anno fa fosse arrivata la notizia di una tragedia in cui erano morti 200 cittadini avrebbe avuto un’eco emotiva incredibile”, si sente dire. Trascurando le motivazioni scientifiche per le quali vivere in un costante stato di allerta e di difficoltà porta, in modo naturale, le persone all’assuefazione e all’adattamento (qualche furbacchione ha anche adattato il termine resilienza, creando uno dei migliori mostri concettuali contemporanei), lo stupore non dovrebbe essere all’ordine del giorno. Stiamo parlando infatti delle stesse persone che non mostravano particolare empatia per le centinaia di morti in mare a qualche chilometro dalle nostre coste, meno che mai per intere popolazioni sterminate “altrove” o per chi muore di fame, di malattia, che sia vicino o lontano. Gli stessi che si sono mossi a commozione per qualche settimana vedendo le immagini di un bambino a faccia in giù sulla battigia di una spiaggia, dimenticandosene poi un paio di giorni dopo. Questo è il sistema del “come prima”.
La cosa che forse oggi ci sconvolge è che le falle del nostro sistema – occidentale, avanzato, benestante – sono arrivate a casa nostra.
Occorre scegliere chi salvare. Occorre scegliere chi lasciare indietro, economicamente, esistenzialmente. La cosa ci scandalizza, ma dimentichiamo che il principio è alla base del nostro intendere il presente e lo scandalo, quindi, dovrebbe essere legato al fatto che nessuno – o solo qualche sparuta voce inascoltata – ha chiesto di sfruttare questo fermo forzato per ridiscutere le regole del gioco. Quindi cos’è successo in Italia?
Si aspettava il vaccino, ma intanto nessuno ha pensato che il congedo retribuito per i genitori con figli in dad andasse predisposto prima della chiusura delle scuole, probabilmente ritenendo che una famiglia media possa permettersi di anticipare 2 o 3 mensilità perché qualcuno se la prende comoda. Si aspettava il vaccino, ma intanto un piano per la copertura nazionale completa di internet veloce si poteva anche fare, come si poteva fare una discussione seria sullo smart working. Almeno per evitare che, per mandare un impiegato a lavorare a 40 chilometri da casa in autobus si dovesse chiudere la scuola del figlio. Che poi diventa un problema anche per l’impiegato, anzi più facile per l’impiegata, considerato che chi ha perso il lavoro, a oggi, è per il 98% donna.
Si aspettava il vaccino e si studiava se usare i dentisti, i medici di base, i veterinari per somministrarlo, quando ci sono medici in pensione che si sono messi da tempo a disposizione per farlo gratuitamente, ma gli viene chiesta la partita iva. Per farlo gratuitamente. Intanto però chi ha la partita iva e non lavora da un anno si vende la casa in attesa dei ristori. Si aspettava il vaccino, ma si è preferito sperare che il virus fosse clinicamente morto in estate, investendo in bonus vacanza. Poi è arrivato l’inverno e, come insegna la cicala di Esopo, i problemi sono tornati a galla. Ci si aspettava però almeno una differente reazione politica. Lo scorso anno eravamo impreparati e tutto, o quasi, poteva essere giustificato, anche i funerali negati, le famiglie separate, gli affetti telematici, la cultura, la scuola, lo sport, l’aggregazione, la vita vera insomma, messa in stand by. Era un’emergenza, tutti erano pronti a fare la loro parte.
Nessuno però ha messo sul tavolo, nemmeno in estate, con una birra ghiacciata davanti, la questione nodale di sostenibilità di un sistema che si esprime al meglio nella voce di deroga di tutti i decreti, anche i più restrittivi, fatti fin ora: “per comprovate esigenze lavorative, o situazioni di necessità, ovvero per motivi di salute”.
Allo stato attuale in zona rossa posso andare a casa di una persona sconosciuta per farle firmare un documento che potrei tranquillamente trasmettere via pec, ma non da un’amica che ha appena perso una persona cara per confortarla. Questo dovrebbe bastare per aprire una discussione di sistema che nessuno, meno che mai i partiti che ambirebbero a parole a promuovere un mondo equo, sembra voler mettere in discussione. Qualche decennio fa sui muri dei centri sociali si scriveva “Produci, consuma, crepa”. Qualcuno è arrivato a sostenere che l’ordine di vaccinazione nazionale dovesse essere disposto in base al livello di produttività regionale. Nessuno, in ogni caso, sta approfondendo l’idea di un possibile modello diverso, nel quale la crescita economica si declini attraverso la sostenibilità ambientale e umana, relazionale. Un peccato visto che ci sono ricerche segnalano un desiderio degli italiani di “nuova” normalità, meno legata ai consumi e più alla realizzazione personale, al tempo per sé e per la vita vera.
Forse lo slogan dovrebbero scriverlo nel prossimo Dpcm.
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