Partiti e politici
Dazi, Iran, Putin: Trump fa e disfa, mentre l’Italia della politica si parla addosso
Prendiamo la fotografia della politica italiana e le parole chiave dei suoi dibattiti di questi giorni, e mettiamole al fianco di quel che succede nel mondo: dazi, Russia, Putin, Trump, da un lato; alleanze, provocazioni tra alleati, cognome della madre, dall’altro. La sensazione di dissonanza, di stridente irrilevanza, è piuttosto netta. Da noi, tra gli schieramenti politici e soprattutto al loro interno, si prepara una sfinente campagna elettorale che, se la legislatura dovesse finire al suo termine naturale, è destinata a durare più di due anni, passando per diversi appuntamenti locali di rilievo. Il mondo, intanto, assiste al dipanarsi del disegno dell’amministrazione Trump che, a colpi di dichiarazioni sta facendo intravvedere un nuovo ordine globale. Se si trasformerà in realtà, e come e con quali tempi, lo capiremo. Ma di certo non manca la chiarezza della direzione.
Nel mondo nuovo di Trump è sepolto, definitivamente, il processo di negoziazione su tavoli multilaterali, governati dal diritto internazionale. Era un’ipocrisia anche prima, si dirà, e con molta ragione, soprattutto se pensiamo a quel che è successo negli ultimi trent’anni, almeno dalla guerra contro la Serbia di Milosevic. E tuttavia, nel mondo nuovo l’obiettivo è di rendere tutto questo codificato e indiscutibile. Far succedere quel che si desidera a Washington e poi chiamarlo pace e giustizia, senza alcuna possibilità di dialettica. Senza, soprattutto, che a una dialettica globale e internazionale sia attribuibile alcun merito nella costruzione del risultato nè alcuna dignità e legittimità.
Siamo, per cominciare, nella settimana di entrata in vigore dei dazi. Lungamente minacciati, presi sul serio da subito dagli investitori sui mercati statunitensi, che hanno iniziato a deprezzare i settori più esposti a rischi, diventeranno realtà per tutta Europa a partire da mercoledì 2 aprile. La mossa choc farà male a molti pezzi di economia, e cioè a molte vite, da entrambi i lati dell’Atlantico. Sarà sicuramente dolorosa, nel suo impatto, nel breve periodo. Trump e i suoi, tuttavia, sono convinti che nel lungo riporterà molte filiere di produzione su suolo americano. Una cosa è certa, tuttavia: imporrebbe all’Europa di parlare con una voce sola e, ancora di più, di agire seguendo un’unica linea. Non diverso, a ben guardare, è quel che è chiesto al nostro vecchio continente in relazione al destino della guerra in Ucraina – oggi Trump è arrabbiato con Putin, domani chissà -, alla Groenlandia – territorio autonomo di un paese membro sia della UE che della NATO, la Danimarca -, perfino all’Iran – “senza un accordo sul nucleare bombarderemo”, dice Trump.
Non sono materie da poco, certo, e alla fine l’Europa continua a faticare a trovare una propria fisionomia, perennemente sospesa tra la vocazione alle dichiarazioni di principio e i singoli interessi e rapporti diplomatici dei paesi membri. In questo quadro, colpisce la pochezza dell’azione e della parola politica italiana. Proprio nella settimana dell’intervista di Giorgia Meloni al Financial Times, un’intervista che per l’importanza della tribuna viene letta come una consacrazione nell’empireo dei politici che contano davvero a livello globale, mentre da quella conversazione apprendiamo che la premier ritiene (con qualche ragione) infantile la scelta secca tra USA e UE, continuiamo però a non sapere – rifiutando ogni infantilismo – qual è la linea italiana. Cosa diremo sui contro-dazi immaginati dall’Europa, ad esempio? E come procede il dibattito tra i governi europei sul riarmo? Sfrutteremo anche quella confusione europea per non dire quale è, per davvero, la posizione italiana?
Nessuno – va detto – ha fretta di dire la verità. Non ne ha Giorgia Meloni, che è stretta tra il “rapporto privilegiato” con Trump e i doveri europei che, nel breve periodo, hanno argomenti forti da giocare sul tavolo di Palazzo Chigi. Ci sono poi tutte le grane interne alla sua maggioranza, destinate a continuare a tempo indeterminato. C’è Salvini che ha ricominciato a vestire i panni del guastatore mentre si celebra il congresso del suo partito; c’è Tajani che è impegnato in un lungo derby con lo stesso Salvini per decidere chi è il secondo della classe, e per occupare più spazio che si può verso il centro. Dove, appena fuori dalla maggioranza ma reduce da una giornata di occhi dolci con la premier, siede Carlo Calenda. Il suo attacco frontale al M5S, con tanto di auspicio di morte politica per il Movimento guidato da Conte, è in continuità con la lunga strategia di sabotaggio di un centrosinistra allargato già messa in atto prima delle elezioni politiche del 2022, quando Calenda ruppe col Pd di Schlein perchè alleato con AVS, e benché il M5S fosse già escluso da ogni ipotesi per aver fatto mancare a pochi mesi dal voto il proprio sostegno al governo Draghi.
Ma nella contingenza presente, a spingere Calenda sulle barricate è l’irrilevanza alla quale lo destina l’asse Schlein-Renzi, che i bene informati dicono solido, e che di fatto sembra dire che la casella del centrismo, nel centrosinistra che verrà, sia già occupata dall’ex premier. Così, Calenda potrebbe pure diventare la stampella centrista di Meloni, magari a partire dalle prossime elezioni regionali nelle Marche.
Naturalmente, cosa succederà da qui al voto è difficile prevederlo. Manca tanto tempo, anche se tra un annetto non è impensabile immaginare un’accelerazione che porti alla fine prematura della legislatura, e le incognite sono molte. Le tensioni identitarie che dividevano M5S e area riformista del Pd e Renzi troveranno ancora molti campi di applicazione, e sono gli stessi su cui tace la premier. Così, per convenienza, nessuno chiederà a nessuno cosa pensa davvero delle cose importanti, perché nessuno può dire la verità.
E vissero tutti omertosi, irrilevanti, e contenti.
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