Partiti e politici
Dalle Sardine domande, non risposte. Ed è giusto così
Dopo le belle e partecipate manifestazioni di Bologna e Modena, il movimento delle Sardine è in espansione. Nelle prossime settimane ci sono incontri, flash mob e cortei indetti un po’ in tutta Italia, in TV appaiono con una certa frequenza i ragazzi che hanno saputo riempire due piazze in un momento difficile per il centrosinistra italiano e a destra si comincia a vedere una certa preoccupazione.
A sinistra, invece, si nota, come sempre, la pavloviana reazione che i movimenti (o guppetti) suscitano nell’estabilishment: un misto di diffidenza e paternalismo con il quale la classe dirigente “ufficiale” ha da sempre accolto quello che si muove fuori dal proprio controllo.
La memoria corre ai Girotondi, il movimento che nel 2002 cercò di scuotere un Ulivo tramortito dal cappotto rimediato alle elezioni del 2001 (quelle dell’en plein siciliano di Berlusconi, per intenderci), ma in comune con le Sardine, a mio avviso, c’è meno di quanto si possa credere.
Nel 2002 Berlusconi era all’apice del proprio successo e del potere. Il suo avversario non era tanto l’Ulivo di Rutelli, stracciato nelle urne senza troppe difficoltà, quanto la magistratura. Prima ancora del famoso comizio di Nanni Moretti a Piazza Navona, c’era stato l’altrettanto celebre “resistere, resistere, resistere” pronunciato da Borrelli all’apertura dell’anno giudiziario ed i girotondi si chiamarono così proprio perché le prime iniziative furono ideali abbracci ai palazzi di giustizia. Il centrosinistra appariva spaccato più o meno su qualunque argomento e le grandi (e tragiche) manifestazioni dei noglobal dell’anno precedente avevano reso evidente l’incapacità di sintesi.
Il 2 marzo 2002, a Roma, in una stracolma piazza San Giovanni, ci fu una prova di dialogo tra il movimento e i partiti, finì con i leader dei partiti a parlare dal palco, mentre dalla piazza si levava il grido “U-ni-tà, U-ni-tà”. Da lì, dopo vari intrecci, le storie si divisero sempre più. Il colpo di grazia lo diede Sergio Cofferati, individuato dai movimenti come leader loro congeniale, quando accettò la candidatura a sindaco di Bologna, con il plauso di D’Alema. L’epilogo di quella stagione fu la vittoria di Pirro dell’Unione alle elezioni del 2006 e la successiva nascita del PD.
Oggi non c’è nulla o quasi di paragonabile al quadro appena delineato. Il centrosinistra, inteso come coalizione, non esiste più. PD e Italia Viva sono al governo. Il principale avversario della piazza è Matteo Salvini, che si trova all’opposizione, non ha in corso nessuno scontro con la magistratura e non si porta dietro il gigantesco fardello che il conflitto di interessi rappresentava per Berlusconi.
L’unico aspetto in comune è l’asfittica classe dirigente del PD, che oggi come allora, sembra del tutto incapace di opporre una visione alternativa alla destra, schiacciata tra il paupero-populismo del M5S e il sovranismo all’amatriciana di Salvini e Meloni. Renzi che, piaccia o no, è stato l’ultimo ad avere qualche idea da proporre all’elettorato, è oramai impegnato a costruire il proprio orticello con Italia Viva. Zingaretti ha riportato il PD alla ditta, ma la sua sembra una strada crepuscolare già segnata, tant’è che la preoccupazione principale è rappresentata dalle elezioni regionali in Emilia Romagna, qualcosa che fino a qualche anno fa sarebbe stato affrontato come una salutare passeggiata e che ora è diventata questione di vita o di morte.
Il PD non è in grado, in questo momento, di assolvere a nessuna delle due funzioni fondamentali di un partito: produrre idee e selezionare classe dirigente. Quelli dotati di maggiore buona volontà esprimono, nella migliore delle ipotesi, qualche vecchia idea rimasticata. Dalla disfatta del 4 dicembre 2016 (oramai 3 anni fa) non si discute più di riforme e la mancanza totale di orizzonti è rappresentata in pieno dalla patetica discussione sulla finanziaria da varare, un insieme caotico di provvedimenti di piccolo cabotaggio che non riuscirebbero a strappare una speranza nemmeno al più determinato degli ottimisti. Quanto alla selezione della classe dirigente, sono talmente impegnati a difendere il proprio posto che il problema non si pone nemmeno.
In questo contesto, e proprio dall’Emilia Romagna, arriva la novità delle Sardine. Dalle piazze, com’è giusto che sia, arrivano domande più che risposte. Le Sardine sono contrarie alla visione (in questo momento egemonica) che esprimono la Lega, Fratelli d’Italia e, in parte, i 5 stelle, ma non hanno una ricetta da proporre. Non hanno il totem del conflitto d’interessi, non brandiscono la “costituzione più bella del mondo”, non abbracciano i magistrati, non si fanno rappresentare dai Flores D’Arcais e Pancho Pardi del momento. Non esprimono nemmeno una marcata ostilità nei confronti del PD. Si definiscono apartitici per mancanza di un’offerta politica adeguata, non per contrapposizione.
Si riuniscono in piazza, anzi si stringono tra loro, quasi per riscaldarsi davanti ad un focolare che si sta spegnendo. Cantano “Bella ciao” perché si sentono antifascisti e sanno che è il momento di ricordarlo e ricordarselo, ma non hanno (per il momento) velleità elettorali. Non hanno scelto un interlocutore, semplicemente perché non ne vedono uno.
Nel vuoto cosmico del centrosinistra italiano, dunque, le Sardine chiedono speranza, visione, futuro. In attesa di una proposta, si limitano ad occupare uno spazio che altrimenti sarebbe fagocitato dalla Lega. Stanno svolgendo, oserei dire, un servizio di pubblica utilità per tutti i democratici e progressisti italiani. Andrebbero ascoltati e ringraziati, invece temo che verranno temuti, denigrati ed allontanati.
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