Partiti e politici
D’Alema non è più lui, e la sinistra nemmeno
Tutto è cominciato quando urlò “vada a farsi fottere!” in faccia a Sallusti che lo accusava di essere il protagonista di “affittopoli” nel salotto di Ballarò: maggio 2010, l’inizio della fine. Cadeva il mito dello stile togliattiano, gelido autocontrollo impermeabile alle emozioni, l’eloquio ricercato nell’argomentare stringente e senza scampo per l’avversario. La “diversità” della sinistra italiana era fatta anche di parole, e di comportamenti, oltre che della convinzione (un tempo abbastanza fondata) della propria superiorità morale.
D’Alema non era più lui. Il sarcasmo sottilmente innervato di cianuro che scatenava l’ammirazione dei sostenitori (e il timore reverenziale degli avversari) era scaduto nell’insulto da osteria. La “diversità” comunista riconvertita nell’ “Io so’ io e voi…” da Marchese del Grillo. La mente più lucida della sinistra di Governo che perde il controllo, ottenebrata dall’ira per la lesa maestà di un giornalista provocatore. Lui che giornalista lo era di professione, e ci fu anche un’indagine dell’Ordine per quell’episodio.
Da allora non si è più ripreso: è stata un’escalation di colpi perduti, di posizioni sfuggite. Nonostante la parentesi della Presidenza del COPASIR, alla fine “rottamato” dal ragazzo che aveva cercato di fermare alle primarie per sindaco di Firenze, e che aveva vinto mettendo in campo altri pezzi di società ben diversi dai suoi, dagli scout alla Curia alle logge, ed era partito alla conquista del potere cavalcando la tigre del cambiamento. Fino alle immagini patetiche di questi giorni: coinvolto sul piano mediatico (e non giudiziario) nello scandalo di Ischia, manifesta il suo sdegno con dichiarazioni livide e insofferenza per le domande degli intervistatori, apostrofando il giornalista di turno fino a chiedergli le generalità in vista di una querela.
Togliatti non lo avrebbe mai fatto. Non era sicuramente un “piacione” nello stile comunicativo, tutt’altro. Aveva fatto accettare al popolo comunista uscito dalla clandestinità sotto la dittatura persino la svolta di Salerno, la collaborazione con la monarchia e il governo di unità nazionale, (dopo avere usato Stalin per sopravvivere al fascismo), ma era un leader perché non aveva mai perso il contatto con il suo popolo nel pensare e nel dire la politica, e aveva fatto crescere intorno a lui un gruppo dirigente di prim’ordine, puntando sui giovani, e liquidando il settarismo della vecchia guardia filosovietica di Pietro Secchia con la forza della visione politica, rendendo leggibile a tutti il futuro democratico del Paese.
Non c’è paragone con la pletora di “yes-man” cresciuti intorno a D’Alema-Presidente e portati a dirigere il Partito che avrebbe dovuto essere il motore della trasformazione dell’Italia. Un esercito di “allineati” e subalterni non può cambiare un Paese, ma solo posizionarsi secondo le opportunità del momento. E così è stato. L’autorottamazione di D’Alema ha il peso e la responsabilità di questa sconfitta storica della forza più grande della sinistra italiana. E quindi la colpa non è tutta e soltanto sua. Manca a questo Paese, oggi, una classe dirigente (anche solo un gruppo dirigente) capace di pensare, progettare, e rappresentare politicamente il cambiamento profondo che tutti desiderano ma che non nasce né dai sondaggi né dall’illusionismo mediatico. Chi non l’ha generata, nutrita e fatta crescere, ha cancellato per un’intera generazione la possibilità di cambiare.
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