Partiti e politici

D’Alema e l’elogio della gratitudine (o quel che ne resta in politica)

23 Marzo 2015

Il sentimento della gratitudine ha molto a che fare con l’esercizio della memoria, può estendersi per un tempo infinito, all’interno del quale alimentarlo con ricordi, sfumature del pensiero, il ravvivarsi degli incontri, quel malinconico richiamo a un passato significativo. La gratitudine, tra i sentimenti, è certamente uno dei più seri e circostanziati, dovendosi misurare su parametri esatti, assai poco equivocabili, nonostante lo sfregio che se ne fa ne lascerebbe presupporre il contrario. Il sentimento della gratitudine nasce da un afflato di libertà, l’altrui libertà di procedere benevolmente e senza contropartite nei nostri confronti. Un territorio felicemente incontaminato da sozzerie retrostanti e il pensiero ai magheggi delle cricche, dove la gratitudine riveste caratteri interessati di fogna maleodorante, è del tutto intenzionale.

Avrete forse visto, sotto il cielo della gratitudine, ciò che è accaduto l’altro giorno tra Massimo D’Alema nella parte del kamikaze anti-renziano e un po’ dei suoi figliuoli prediletti, i quali, a vario titolo e con parole diverse, ne hanno sostanzialmente certificato l’insussistenza politica. Da “venerato maestro”, qual lo consideravano senza se e senza ma, siamo retrocessi praticamente a “solito stronzo”, invertendo così l’ordine arbasiniano, nella realtà riferito al procedere degli scrittori. Non siamo mai stati in grado di entrare nel cuore di Massimo D’Alema, cardiologicamente uno dei più insondabili, e non sappiamo quanti ne possano vantare una conoscenza approfondita. Certo, una curiosità avremmo volentieri sondato il giorno in cui quel fuoco amico gli ha devastato la giornata: la traduzione sentimentale del suo battito cardiaco. Che avrà pensato tornando a casa e poi portando a fare un giretto ai giardini la sua adorata cagnetta, da quali pensieri sarà stato attraversato? Li avrà passati in rassegna uno a uno, sibilandone i cognomi (i nomi no, troppa confidenza per quei traditori), oppure in una rimozione forzata e dolorosa si sarà appellato a quell’emendamento secondo cui agli ingrati non va devoluto neppure un soldino di considerazione?

Se è possibile stare da una parte, da una certa parte, in questa querelle politico-sentimentale, qui non si nasconde una predilezione per il leader Maximo, ora che non conta più una cippa e dopo averne subito e mai condiviso l’arroganza per circa una ventina d’anni. Ma, si sa, i perdenti appassionano e appassionano ancor di più quelli che – nonostante il treno della Storia li abbia praticamente asfaltati come Vilcoyote – resistono nell’arrogante necessità di considerarsi nel giusto. Mitico Max, ma piccini piccini i suoi figlioletti ormai grandi e super vaccinati che lo hanno bastonato senza eccessive cerimonie. Ma se Cuperlo lo ha fatto con l’eleganza del riccio, guardandolo con gli occhi nobili del campo aperto e chiedendogli conto di un fallimento che ha coinvolto tutte le famiglie, comprendendo la sua, gli altri hanno sbraitato fiammeggianti come se lo avessero conosciuto un minuto prima e insultato il minuto dopo per quel che di sbagliatissimo sosteneva. Gli stessi che da levatrice sussiegosa il buon Massimo aveva fatto nascere, a cui aveva dato un mestiere (attenzione, qui si aprirebbe la famosa questione berlusconiana, secondo cui tutto questo guazzabuglio ex comunista non ha mai lavorato un solo giorno in tutta la vita), e che un bel giorno si erano messi a camminare (quasi) da soli.

C’entra la gratitudine in tutto questo guazzabuglio o siamo nel campo delle cento pertiche dove tutto è nebulizzato, indistinto, neppure meritevole d’essere rimarcato? Poi ci sono gli stili e gli stili seguono alle parole, che ne definiscono il livello e se ascoltate quelle di Claudio Velardi, che viene regolarmente interpellato su un’unica competenza: D’Alema Massimo, capirete perfettamente cosa significa aver campato su quel pover’uomo e oggi consigliargli un buon terapeuta: «La vicenda – dice il suo antico collaboratore – rientra più sfera della psicanalisi che in quella della politica»

Sì, vero. Forse una terapia di gruppo aiuterebbe, in cui guardarsi tutti negli occhi, compreso, compresissimo Matteo Orfini, barba e capelli fatti al salon de beautè del nostro Massimo e oggi, da presidente emerito, impeccabile negazionista di se stesso: «Se ci sono difetti nell’azione di governo – ha detto – e ce ne sono, stanno proprio nella fatica a smaltire sino in fondo le scorie della subalternità politica e culturale degli ultimi vent’anni. Difficile che possano riuscire a correggere quegli errori i protagonisti di quella stagione di subalternità, che peraltro continuano a considerarla l’era della “meglio classe dirigente”»

Meglio finirla qui con il sentimento della gratitudine. Che non è dovuto, che è totalmente su base volontaria. Signori, fate una piccola offerta…
Ps. Ci sarebbero da dire un paio di cose anche sulla penosa vicenda di Nicola Latorre, dispensatore maccheronico del pensiero dalemiano per circa un ventennio, ma onestamente siamo sfibrati.

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