Partiti e politici
Da Carfagna a Speranza, “l’area Draghi” è piena di generali e scarsa di truppe
Quando Dario Franceschini parla di politica politicante bisogna sempre drizzare le antenne. Non perché abbia sempre ragione, ovviamente: ma molto spesso ha meno torto degli altri nell’anticipare di qualche settimana il futuro. Lo sa bene chi lo snobbó, nell’estate del 2019, quando ben prima del Papeete disse che “5 stelle e Lega non sono la stessa cosa: coi grillini noi del Pd dobbiamo iniziare a parlare”. L’affermazione suscitò il subitaneo sdegno dell’ex segretario Renzi e dell’allora segretario Zingaretti. Un mese dopo il primo costruì il Conte 2, il secondo lo subì, e Franceschini si sedette al governo. A monte.
A valle c’è il Franceschini di oggi, che dalle colonne del Corriere, con l’intuito di chi “è sempre seduto dove si siederà la maggioranza” (sempre Renzi), e il mandato quindi di rappresentarne da subito la voce, battezza il nuovo schema di gioco: ed è più che impossibile che non ci sia un solido accordo con Enrico Letta, sul tema. Ed eccoci qui, al nuovo schema: dopo l’autoesilio scelto da Conte, e dopo l’iscrizione al club draghianissimo chiesta da Carfagna Gelmini e Brunetta, l’asse si sposta un po’ verso il “centro”. Il nuovo “campo” – se largo o stretto lo diranno gli elettori – è una nuova coalizione che dovrebbe comprendere Carfagna e Cuperlo, Brunetta e Speranza, Gelmini e Orlando, Calenda e gli amici di Landini, Di Maio e Confindustria. Difficile che Matteo Renzi non abbia un ruolo, in questa pagina di cronaca che naturalmente dichiara di ambire alla storia. Tutti uniti nel nome di Draghi, del Draghi che è stato fino a ieri, e poi si vedrà.
Tanti generali e generalesse, con le truppe in via di conta. Già. Perché Franceschini è un fenomeno nelle mura del parlamento e tra le scartoffie del partito, ma nelle vie della grande periferia italiana soffre un po’ di più. Come tanti, dalle sue parti. La scommessa infatti è che alla fine di un’estate stremante a votare vadano in pochi, e una buona parte, tra questi, ancora siano indignati per il trattamento riservato ai migliori. Un patto costruito tra alleati e transfughi, sperando che gli elettori seguano. Finora non è quasi mai andata così, ma c’è sempre una prima volta, penserà Franceschini. Certo, non è tempo di moralismi, ma una domanda tutta politica resta: chi entrerà in parlamento tra le zolle di questo campo, piccolo o largo che sarà, può promettere solennemente che dopo, da eletto, non voterà mai la fiducia a un governo sostenuto anche da chi oggi è il nemico assoluto, cioè chi ha voltato le spalle a Draghi? E può prometterlo non portando a garanzia il nome di Draghi, ma quello di Dario Franceschini?
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