Partiti e politici
Corbyn e la svolta presunta
Una settimana fa, Jeremy Corbyn ha deciso di appoggiare l’ipotesi di un secondo referendum su Brexit, sostenendo che il Labour farebbe campagna per il remain.
Tanto è bastato, a molti, per parlare di “svolta”. In effetti, il leader laburista è stato spesso descritto da più parti come un Brexiter malcelato, che non ha mai sciolto realmente i nodi su cosa pensa della Brexit.
Questa visione di Corbyn posa su una serie di innegabili riserve o posizioni che questi ha sempre nutrito verso l’UE, ma si alimenta anche su stereotipi su di lui che ormai sono consolidati.
Ma per parlare di “svolta” su Brexit bisogna considerare una serie di punti:
1. Al referendum del 2016 il partito laburista era schierato per il remain, e lo stesso Jeremy Corbyn non ha mai rilasciato dichiarazioni pubbliche in senso contrario. Non è dato sapere cosa pensasse nel suo intimo, ma la posizione politica del partito e del suo leader è abbastanza chiara. Una volta perso il referendum, i laburisti non hanno mai chiesto una ripetizione di esso. Proprio in questa fase si sono moltiplicate le critiche a Corbyn: non appoggiare chiaramente la ripetizione del voto è stato visto da alcuni come un non volersi opporre a Brexit. Il non aver da subito insistito per ripetere il referendum può considerarsi un’implicita posizione pro-Brexit? Difficile da sostenere: ripetere un referendum avrebbe significato delegittimare una forma di espressione popolare, per quanto solo consultiva. E soprattutto, in questi anni in Inghilterra non c’è mai stata una chiara maggioranza europeista, anche durante le fasi più cupe dei negoziati con l’UE. Sarebbe stata una posizione politica matura quella di delegittimare un referendum (e la maggioranza dell’opinione pubblica) intestardendosi sulla sua ripetizione, mentre gli eventi acceleravano? Personalmente, ho qualche dubbio. Anche perché l’elettorato laburista è da sempre diviso su Brexit. Nel 2016 il Leave ha vinto in collegi tradizionalmente di sinistra (che sono tornati a votare Labour già nel 2017), mentre secondo alcuni dati il 35% degli elettori laburisti ha votato per uscire dalla UE, certo una minoranza ma molto corposa. Si può biasimare Corbyn per non aver riaperto una battaglia persa anche contro i suoi stessi elettori, concentrandosi sull’opposizione ai Tories?
2. In questi anni, Corbyn ha posto una serie di paletti per appoggiare in parlamento un eventuale accordo di uscita dalla UE. Tra la varie richieste, c’era l’unione doganale con la UE, la partecipazione a programmi di finanziamento europeo, allineamento su diritti e protezioni delle persone e dei lavoratori e collaborazione in materia di sicurezza. Risulta un po’ difficile presentare come pro-Brexit chi, di fatto, poneva delle condizioni che arrivavano al punto di annacquare la Brexit. Si tratta di proposte strategiche, fatte proprio perché si sapevano inaccettabili? E’ possibile, ma rimane il dato che il Labour ha sostenuto posizioni non in linea con le argomentazioni dei Brexiters più estremi, che nel frattempo arrivavano ad accettare l’ipotesi del No Deal al grido di “Brexit means Brexit”. Basti vedere che il Brexit Party ha vinto le europee 2019: questo dimostra non solo che probabilmente in UK non c’è una maggioranza pro-UE, ma che lo stesso Labour non è avvertito come il partito pro-Brexit.
3. La presunta svolta di Corbyn nasce da una dichiarazione in cui afferma che il nuovo primo ministro dovrà sottoporre al voto lo scenario in cui avverrà la Brexit, sia in caso di No Deal che di accordo. Il Labour sosterrà il remain – cito testualmente – “sia nel caso di No Deal che nel caso di un accordo dei Conservatori che non protegge economia e lavoro”. E’ importante notare due cose: la prima è che Corbyn, come ha sempre fatto, si esprime contro il No Deal, la seconda è che afferma che il Labour sosterrà il remain di fronte a un accordo che portasse alla perdita inevitabile di ricchezza o di posti di lavoro, non in tutti i casi. Per quanto sia uno scenario ormai improbabile, qualora fosse proposto un accordo con l’unione doganale e le altre richieste laburiste, Corbyn potrebbe sostenere la Brexit senza venir meno alla sua posizione precedente.
In effetti, le dichiarazioni di Jeremy Corbyn non contraddicono granché le posizioni avute negli ultimi tre anni: in un referendum il partito sosterrebbe la stessa posizione di tre anni fa, ma è disposto a uscire dall’UE, in linea con il risultato del referendum del 2016, a patto che vi sia un accordo che tuteli i salari e l’economia. Sicuramente il fatto che Corbyn menzioni apertamente la possibilità di un secondo referendum è molto importante, ma nei contenuti specifici parlare di svolta è forse eccessivo.
Ovviamente, Corbyn lancia la questione anche per sfruttare per fini nazionali le questioni interne ai Tories, che si trovano a gestire una fase complessa con una situazione del partito molto delicata. In questo, Corbyn rivela di avere uno spiccato opportunismo politico (piaccia o meno). Proprio facendo leva sul cambio di premier e sulla fine delle negoziazioni, Corbyn può sostenere la necessità di sottoporre al voto popolare l’esito di un processo durato tre anni. Ma appunto: politicamente parlando, non si tratta di rivedere la decisione del 2016, ma di valutarne il suo esito. Un referendum posto in questi termini non necessariamente sarebbe una delegittimazione del primo.
Se quindi si deve parlare di svolta, lo si può fare solo nella scelta di appoggiare un referendum, non tanto nei contenuti effettivi delle posizioni laburiste in merito alla Brexit.
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