Partiti e politici
Contro chi votiamo oggi ?
Dopo l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d’America, com’era facilmente prevedibile, i 60 milioni di allenatori della nazionale e presidenti del consiglio si sono scoperti raffinati analisti di politica internazionale, oltre che ferrei critici delle tecniche previsione dei risultati elettorali.
Evitando come la peste le analisi semplicistiche proviamo a fare qualche constatazione/considerazione, anche abbastanza elementare, che tuttavia potrebbe sfuggire nella confusione generata dal cordoglio dei limitatamente democratici (se non vince il mio candidato ha perso la democrazia), le auto-assoluzioni di chi non perde mai (sono gli elettori a sbagliarsi) e i vaneggiamenti degli intellettuali troppo presi dal proprio ombelico per accorgersi di quel che gli accade intorno.
La democrazia funziona benissimo
In democrazia non vince il migliore, il più capace, quello che ha governato meglio in passato o ha il programma più sensato e le migliori probabilità di governare bene in futuro. In democrazia vince chi è più popolare. Per quanto la cosa possa far storcere il naso a qualcuno, in generale gli attori del cinema sono più conosciuti delle medaglie fields e chi propone soluzioni semplici , che non comportano sacrifici e promettono benefici immediati (anche se fallaci e autolesionistiche nel medio termine) e cavalca gli umori del momento tipicamente riscuote maggior consenso.
Molti elettori, semplicemente, non hanno voglia, tempo e competenze per analizzare criticamente le reali prospettive di governo dei candidati, i loro programmi e giudicarne criticamente la coerenza logica e fattibilità pratica. Quindi votano in base ad altri presupposti oltre che, ovviamente, in base ai propri interessi individuali e di minoranza, spesso in conflitto con quelli della collettività.
Un sistema che porti al governo chi ha a cuore il benessere della collettività nel medio lungo termine ancora non l’abbiamo trovato ad oggi vince chi prende più voti e, se l’esito non ci piace, dovremmo farcene una ragione.
E’ più facile votare contro
Tramontate le grandi idelogie (destra, sinsitra, dio, patria, libertà uguaglianza) le alternative sulle quali siamo chiamati a scegliere sono sempre più simili tra loro. Dunque è sempre più difficile comprendere le differenze tra un candidato moderato di centro, centro-sinistra o centro destra (così come talvolta tra estremismi populisti di destra e di sinistra).
Posto che il meccanismo democratico privilegia la semplicità è più agevole scegliere contro chi votare. In quest’ottica, forse, chi ha votato Trump non voleva promuovere un programma vago, contraddittorio, nè approvare le molte provocazioni diffuse in campagna elettorale. Forse volevano semplicemente votare contro quello che Hillary Clinton rappresenta.
Se così fosse, piuttosto che costernarsi per il risultato occorrerebbe interrogarsi su come è stato possibile che il candidato e il partito che sono stati sconfitti (incluse le primarie del partito repubblicano) siano riusciti a portare avanti una proposta capace di perdere contro quello che era largamente considerato il più improbabile degli avversari.
I sondaggisti non devono cambiare mestiere
Personalmente non ho competenze sufficienti per giudicare l’operato di chi formula previsioni in campo elettorale. Però uno dei messaggi che passa in questi giorni è che i sondaggisti ci hanno fatto intendere che avrebbe vinto Hillary mentre alla fine ha vinto Trump. Per cui hanno cannato alla grande.
Questo discorso andrebbe un po’ contestualizzato. Può anche darsi che tutti abbiamo voluto intendere (confermando magari le nostre speranze) che Hillary avrebbe vinto. Tuttavia quel che avevamo a disposizione erano degli scenari con delle probabilità: se Nat Silver ci diceva che Trump aveva il 30% di probabilità successo, la sua vittoria non è esattamente un cigno nero.
Il modo di affrontare la questione è: o noi abbiamo ora a disposizione degli modelli statistici o dei processi di trattaento dei dati, in base ai quali è possibile stimare delle percentuali più in linea con quanto si è poi effettivametne realizzato (es. Trump con possibilità di vittoria al 40-50-60%), usando le informazioniche erano disponibili al momento in cui sono stati fatti i pronostici, per cui si può dire oggi che in quel momento la probabilità non era 30% ma un numero diverso, e che sono stati commessi degli errori (di campionamento, di aggegazione o di trattameto dei dati etc), oppure i sondaggisti hanno fatto bene il loro mestiere e i risultati non dovrebbero sorprenderci più di tanto.
Elementi di incertezza quali per esempio la possibilità per chi viene interpellato nei sondaggi di mentire, cambiare idea o in ogni caso comportarsi diversamente da quanto dichiarato (anche semplicemente non andando a votare come potrebbero aver fatto alcuni sostenitori di Bernie Sanders) sono impossibili da eliminare. Correttezza vuole che si tengano distinti gli errori di chi fa le previsioni dalla semplice eventalità che un evento meno probabile possa effettivamente verificarsi.
La sconfitta dell’arroganza intellettuale
Come ben testimoniato dal recente editoriale di Gramellini, in cerca di sintonia con i propri omologhi d’oltreoceano, la lettura più comoda e autossolutoria da parte degli intellettuali in difesa dell’esntabilishment (e di se stessi) è che il risultato delle presidenziali sia imputabile all’ignoranza (o al risentimento) degli elettori incapaci di comprendere cosa era meglio votare.
Ovviamente si tratta di una lettura funzionale ad affermare che la sconfitta non è demerito di chi non è stato capace di proporre un’alternativa credibile alla maggioranza degli elettori (che è così che si vince sul pianeta terra fuori dalle tecnocrazie immaginate dai filosofi), ma della miopia degli elettori.
Personalmente, posto che è plausibile ritenere che in molti casi si sia votato più contro che non a favore di qualcosa, a me piace pensare che il voto per Trump sia stato anche l’arroganza di certi intellettuali e in generale contro le elites che hanno scelto di servire.
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