Partiti e politici
Conservatorismo radicalizzato. Chi oggi costruisce il domani
Abbiamo a che fare con un nuovo fenomeno: il conservatorismo radicalizzato. La denominazione è una buona sintesi ed è l’assunto di partenza che Natasha Strobl propone nel suo Le nuove destre.
Che cosa lo distingue dal conservatorismo tradizionale? Il proposito – qui sottolinea Strobl, sta un primo elemento di continuità con la fisionomia politica dei fascismi e di differenza rispetto al conservatorismo tradizionale – di voler superare l’ordine politico esistente.
A questa prima caratteristica Strobl ne accompagna una seconda, ovvero che il fenomeno stiamo analizzando più che essere una novità o il segno di una crisi attuale, ha invece tempi più lunghi, ha luoghi di formazione culturale e coesiste con la parallela crisi del conservatorismo tradizionale, come hanno richiamato di recente, per esempio, Steven Forti e Giorgia Serughetti.
Momento generativo di questa dimensione è il laboratorio che tra anni ’60 e anni ’70, caratterizza la GRECE (Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne) Il tema è la riscrittura dell’identità a destra cui Strobl individua tre aspetti:
1) si prendono le distanze, almeno formali, dal pensiero nazista e la riscoperta o la preposta duina rilettura della destra conservatrice, ovvero dl pensiero antisistema di destra presente a attiva in Germania tra fine degli anni ’10 e inizio degli anni ’30 [su cui è ancora utile La rivouzione conservatrice di Stefan Breuer];
2) uso della della riflessione di Antonio Gramsci in funzione di un’idea di egemonia e di ruolo degli intellettuali,
3) si stabilisce un legame tra gli ambienti conservativi e quelli fascisti.
Questo terzo aspetto in parte fa sì che l’esito conclusivo (e provvisorio) di questo processo si distacchi, almeno in parte, dal precedente profilo di “nuova destra”.
Questa volta la rivendicazione di ispirazione fascista è decisamente rivendicata negli stili, nei gesti, nel sistema di valori e la proposta è fondata sul principio dell’attore sociale che ora si propone protagonista e che vive dell’incontro tra tre diversi attori: da una parte sta quello che il sociologo Wilhelm Heitmeyer chiama Tentazioni autoritarie di una «borghesia grezza che non rappresenta più un’eccezione, ma un ideale a cui aspirare laddove precisa che l’attenzione non va posta “sulla classe economica, ma piuttosto sul fatto che sotto un sottile strato di maniere civili e conservatrici (<borghesi>) si nascondono atteggiamenti autoritari che stanno diventando sempre più chiaramente visibili, sotto forma di una retorica sempre più rabbiosa».
Un aspetto che certamente raduna famiglie politiche di vario genere, che attraversano realtà politiche le più diverse, dalla Francia, al Regno Unito di Boris Johnson, agli Stati Uniti di Donald Trump soprattutto, di ciò che resta nel profondo culturale, ma anche nel lungo periodo delle istituzioni USA (una fra tutte la composizione della Corte suprema),ma anche in un contesto centro-europeo che non vuol dire solo Slovacchia, Ungheria, Polonia, ma soprattutto l’Austria di Sebastian Kurz, una figura che pesa sul profilo culturale dell’Austria politica anche dopo la sua uscita di scena alla fine dello scorso anno per approdare su Paypal di Peter Thiel.
Un profilo che Strobl analizza soprattutto nelle dinamiche aperte negli Stati Uniti con l’ascesa e poi l’uscita (temporanea?) di Donald Trump e soprattutto appunto del “caso austriaco”. Un’analisi che prima ancora di essere significativa per la ricostruzione di un processo di cui molti particolari risultano molto istruttivi è strutturale per la comprensione e l’analisi politica in conseguenza del prontuario di atti, concetti, mentalità che Strobl raduna in sei mosse e che è consigliabile tenere a mente ora e nei prossimi anni per cogliere le trasformazioni e le metamorfosi possibili della politica.
Strobl dunque propone sei passi.
Nell’ordine:
1. Violazione deliberata delle regole, quelle formali, ma anche a dare forma al rapporto con le istituzioni che appunto son proposte come “limite” da travalicare e non come spazio pubblico in cui riconoscersi.
2. Contrapposizione tra «noi» e «gli altri». Il che significa rifiuto di una politica che punta alla mediazione e all’equilibrio raffigurazione dell’avversario come distruttore e come minaccia e in costante attività di complotto per distruggere la «casa comune» di cui, ovviamente, l’avversario è «ospite» e dunque eliminabile quando disturba.
3. Centralità della figura del leader il che per certi aspetti richiama il «Führerprinzip».
4. Necessità di una riforma antidemocratica dello Stato che significa: smantellamento dello Stato sociale; non riconoscimento dell’autorevolezza del sistema giudiziario; comunicazione politica che si muove intorno all’asse propagandistico che le istituzioni della rappresentanza parlamentare sono in “mano allo straniero” e dunque, per questo, né credibili, né difendibili, né riformabili.
5. Confronto politico fondato sul principio della campagna politica permanente mettendo al centro un unico tema che ha la funzione di: spiegare, mobilitare, fidelizzare. La tecnica è volta confermare l’assunto di partenza ovvero svolgere la funzione da spiegazione mono-causale di tutti i problemi non risolti.
6. Costruzione di realtà parallele. Il caso esemplare, quello che ha fatto scuola è quello della Consigliera di Donald Trump Kellyanne Conway che nel 2017 conia la metafora «alternatve facts» (ma l’espressione più appropriata è «post-verità»). Una retorica, ma forse più propriamente una «tecnica» che fonda l’opinione pubblica sulle Echo chambers.
Con questo termine si intende quei sistemi virtuali chiusi in cui informazioni, idee o opinioni vengono amplificate e rafforzate dalla ripetizione all’interno del sistema stesso, dove non viene dato spazio ad idee diverse da quelle di chi li frequenta abitualmente. Sono dunque luoghi di mistificazione e di parzialità dell’informazione, di estremizzazione e polarizzazione delle idee, di isolamento e discriminazione. Inoltre producono una sostanziale disabitudine al confronto con idee ed opinioni diverse dalle proprie, contribuendo a generare l’inasprimento dei toni ed il cosiddetto fenomeno dell’hate speech.
Quando nel1966 Hannah Arendt riprende in mano il suo Origini del totalitarismo e aggiunge un capitolo (cap. XIII: «Ideologia e terrore») la sua intenzione è quella di tornare a riflettere su un passato recente i suoi possibili lasciti al tempo presente per prevenire possibili ritorni. Riletto oggi, quel capitolo sembra meno potente come «prevenzione» e maggiormente aderente a ciò che c’è. Estraggo poche righe, [si trovano nella parte conclusiva di quel capitolo]. Suonano così:
«Il suddito ideale del regno totalitario non è il nazista convinto né il comunista convinto, ma l’uomo per cui la distinzione tra fatti e finzione, e la distinzione tra vero e falso, non esistono più».
Quelle parole sono tornare a riguardarci.
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